Il card. Sarah in Guatemala. Mons. Ramazzini: un Paese dalle ferite aperte
Si è concluso il viaggio del card. Robert Sarah in Guatemala. Il presidente del Pontificio
Consiglio “Cor Unum” è giunto nel Paese centroamericano il 18 marzo scorso per inaugurare
un complesso abitativo di diciannove case con una cappella, costruite per altrettante
famiglie, grazie a un dono del Papa, dopo le calamità naturali che hanno colpito il
Paese nell’autunno 2011, e portare un segno di concreta vicinanza spirituale alle
popolazioni che stanno ora affrontando la fase della ricostruzione. 16 anni dopo la
fine della guerra civile, il Guatemala resta uno dei Paesi più poveri del mondo, dove
un bambino su due soffre di malnutrizione cronica. Come si può spiegare questa situazione
drammatica? Xavier Sartre lo ha chiesto a mons. Alvaro Leonel Ramazzini
Imeri, vescovo della diocesi guatemalteca di Huehuetenango:
R. – Si spiega
con il fatto che quella guatemalteca è una società nella quale predomina il modello
economico neoliberale che fa sì che i ricchi diventino più ricchi e i poveri più poveri.
Il Guatemala ha sempre seguito questo modello economico, in tutta la sua storia, e
che finora ha prodotto esclusione, emarginazione e ancora più povertà per i più poveri,
in particolar modo per gli indigeni e per i contadini. Da un punto di vista religioso,
è un Paese in cui nonostante il 98 per cento della popolazione si definisca cristiana,
non si vive in maniera coerente ai principi del Vangelo. E questo, almeno dal mio
punto di vista di vescovo, è molto serio. Assistiamo ad una crisi molto, molto profonda
dell’essere cristiano. Moltissime persone non capiscono che essere cristiano significa
seguire il Signore Gesù, imitare il suo stile di vita che comporta non soltanto carità
ma anche lotta per la giustizia e per il rispetto degli esseri umani.
D. –
Perché, secondo lei, c’è sempre più differenza tra i ricchi e i poveri?
R.
– Lei sa che – come ha detto Papa Francesco nella sua recente Esortazione Apostolica
– c’è questa mentalità di servire sempre più il “dio denaro”, e questo fa dimenticare
che ci sono tantissime persone che soffrono. In fondo, il problema del Guatemala è
che manca la vera adorazione di Dio, non si trova il Signore Gesù nei poveri. Parlo
di una crisi molto, molto profonda del cristianesimo guatemalteco.
D. – Il
problema della ripartizione delle terre rimane comunque uno dei maggiori problemi
del suo Paese…
R. – Certo. Infatti, non abbiamo mai avuto una riforma agraria.
Alcuni anni fa, il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace aveva scritto
un documento che è stato per noi di grande orientamento. Bisogna considerare che in
Guatemala moltissime persone non conoscono il Compendio della Dottrina sociale della
Chiesa, anche se noi cerchiamo di farlo conoscere. Quindi, i principi della Dottrina
sociale della Chiesa non sono seguiti. Tra questi, ad esempio, il fatto che i beni
della terra sono per tutti e non soltanto per un piccolo gruppo di persone.
D.
– C’è un altro problema: la violenza nelle città. L’urbanizzazione del Paese piuttosto
che favorire migliori condizioni di vita, sembra aver contribuito a far aumentare
la violenza e la povertà. Perché?
R. – Perché ci sono tantissimi giovani che
sono nati in famiglie disintegrate, famiglie distrutte e quindi non hanno neanche
avuto l’opportunità di sentirsi amati. E questo ha dato come risultato la presenza
di questi gruppi, che noi chiamiamo “las maras”: sono gruppi veramente violenti, risultato
della povertà, della mancanza di opportunità per i giovani, della mancanza di istruzione,
di opportunità di lavoro … Secondo me, la violenza maggiore che stiamo soffrendo adesso,
in Guatemala, è proprio la povertà, che crea poi questi risultati dei quali stiamo
parlando.
D. – La guerra civile è durata 36 anni: sono sempre aperte le ferite
di questo conflitto a 16 anni dalla sua fine?
R. – Penso di sì. Uno dei segni
di questo è il fatto che abbiamo perso la capacità di dialogare, di trovarci insieme
per affrontare i nostri problemi. Poi, c’è un certo sentimento di vendetta in molte
persone che hanno sofferto tanto, durante la guerra, e nonostante i nostri sforzi
di portare avanti non solo un discorso sulla riconciliazione, ma anche una pratica
della riconciliazione, troviamo che molte ferite sono ancora aperte, e per me questo
significa che noi pastori dobbiamo veramente cercare di promuovere programmi di assistenza
psicologica, perché molta gente non riesce a superare le ferite lasciate dalla guerra
civile.
D. – In questo contesto, qual è il ruolo che può ricoprire la Chiesa
nel Paese?
R. – Continuare ad annunciare il Vangelo che è sempre seme, ma soprattutto
forza per riuscire a raggiungere la pace. Per me, però, è molto importante ricordare
le parole del Beato Giovanni XXIII nella sua Enciclica “Pacem in terris”, quando ha
ricordato che non si può avere una vera pace se non la si fonda su quattro colonne:
la giustizia, la verità, la libertà e la carità. Credo che noi pastori del Guatemala
dobbiamo cercare il modo di far sì che queste colonne possano stare lì, che le possiamo
sostenere al fine di trovare questa pace della quale il Paese ha bisogno.