Giovanni Allevi agli studenti della Salesiana: nella mia musica la ricerca di Dio
"Comunicazione e musica” è il titolo dell’incontro con il maestro Giovanni Allevi,
ospitato sabato pomeriggio dalla Pontificia Università Salesiana di Roma. In questa
occasione, la Facoltà di Scienze della comunicazione sociale dell’Ateneo, nel suo
25mo di fondazione, assegna al musicista una speciale benemerenza nel campo della
comunicazione musicale. Giovanni Allevi, artista di fama internazionale, molto
amato dal pubblico, in particolare dai giovani, è impegnato in questi giorni nel suo
Tour “Solo Piano 2014”. Prossima tappa, il 19 marzo a Lugano. Roberta Gisotti
lo ha intervistato:
D. – Maestro,
quanto ha contato nel suo possiamo dire travolgente successo, oltre alle sue indubbie
doti artistiche, la sua capacità di comunicare?
R. – Probabilmente non riesco
a rendermene conto. Sicuramente, non posso prescindere dalla mia capacità comunicativa.
Continuo però a pensare che sia la musica l’elemento principale ad avere stabilito,
ad avere toccato il cuore della gente. Forse, quella musica ha una grande capacità
comunicativa.
D. – Nella sua biografia ufficiale è riportata questa sua frase:
“Oggi l’artista deve essere un po’ filosofo, un po’ inventore, un po’ folle, deve
uscire dalla torre d’avorio e avvicinarsi al sentire comune”. Che senso ha questa
riflessione?
R. – Alla base di questa riflessione c’è proprio la mia esigenza
– e credo anche quella di un intero movimento artistico – di uscire fuori dalla torre
d’avorio che rappresenta in un certo senso l’accademismo, in cui io stesso sono cresciuto,
per avvicinare la propria arte, la propria espressione, al sentire comune, cioè avvicinarsi
alla gente e riuscire a raccontare questo nostro tempo, riuscire a raccontare anche
gli slanci e le aspirazioni delle persone, che vivono intorno a noi in questo momento,
quindi nel presente.
D. – Di lei si è letta questa definizione, “L’enfant terrible
della musica classica contemporanea”. Ecco, prima di lei questi due aggettivi non
venivano appaiati, ma certo possiamo dire che anche Mozart al suo tempo sarà stato
un artista classico contemporaneo...
R. – Si, certo, certo. Può sembrare un
ossimoro, la vicinanza della classicità alla contemporaneità. In realtà, la mia definizione
vuole avere un significato puramente tecnico e prescinde da qualunque giudizio di
valore. Per classicità intendo il recupero di forme e di architetture, che sono proprio
tipiche della tradizione classica: per esempio, la forma sonata, la sinfonia, il concerto
per strumento solista e orchestra. La contemporaneità invece concerne, a mio avviso,
i contenuti. Ossia, è necessario che quelle forme classiche inglobino i ritmi e i
suoni che sono intorno a noi in questo momento. Per questo ho immaginato, ho pensato
che fosse possibile, e anche necessaria, una musica classica nelle forme e contemporanea
nei contenuti, la cosiddetta "musica classica contemporanea", che tanto ha fatto e
continua a far discutere il mondo accademico. Ed è giusto che faccia discutere, perché
vuole rappresentare la possibilità, irriverente sotto certi aspetti, che la musica
classica si evolva continuamente e quindi torni a parlare, a raccontare il presente
e non più un’epoca di due secoli fa.
D. – Leggendo la sua biografia, incuriosisce
il tema della sua tesi in filosofia: “Il vuoto nella fisica contemporanea”. C’è stata
o c’è una trasposizione di questo concetto nella sua musica?
R. – Probabilmente
sì, perché secondo la meccanica quantistica, quindi le ultime teorie della fisica
contemporanea, il vuoto assoluto non esiste. Il vuoto è sempre, comunque, un elemento
ribollente di attività, di attività subatomica, da cui poi si origina il pieno, si
origina la materia. Io lo posso assimilare al silenzio in musica che, nonostante sia
privo di suono, è sicuramente molto espressivo e dà la possibilità al suono, che poi
sopraggiunge, di manifestare tutta la sua potenza. C’è, dunque, sicuramente un parallelismo
tra la mia ricerca filosofica sul vuoto e la musica.
D. – Pensando ai tanti
giovani, suoi fan, e agli studenti universitari, come è stato anche lei, quanto è
importante coltivare un’arte come la musica o altre arti, al di là del lavoro che
poi si farà per vivere?
R. – E’ importantissimo perché dobbiamo dare ai ragazzi
la possibilità di esprimere il proprio mondo interiore. Questo può essere fatto attraverso
la musica, attraverso la pittura, attraverso la letteratura, attraverso qualunque
forma d’arte, indipendentemente dal fatto che quello diventerà il lavoro e quindi
un mezzo per la propria sussistenza. E’ necessario, è quasi direi urgente, che i ragazzi
oggi trovino la possibilità di esprimere il loro sentimento, di esprimere anche la
loro rabbia repressa, per evitare che possano dirigere questa energia, questa energia
sotterranea, verso forme che magari possono essere anche autolesioniste. Quindi, “Evviva
l’arte!” e soprattutto cerchiamo di raccontare questo nostro tempo con una nuova arte,
cosa che ancora non è stata fatta.
D. – Sempre pensando ai giovani, quale
suggerimento su come gestire – se arrivano – il successo, i soldi, la notorietà? Si
dice pure che non sempre sia una fortuna...
R. – Basta pensare che comunque
tutto purtroppo è labile: il successo e la notorietà possono arrivare magari all’improvviso
e allo stesso modo se ne possono andare. Quindi, è meglio concentrare la nostra attenzione
su ciò che davvero conta. Per quanto mi riguarda, è scrivere la musica, è comporre
musica, è mettere tutto me stesso in quello che sto facendo, senza pensare al riscontro
esterno, senza pensare al successo, alla notorietà, che sono una conseguenza - soltanto
una conseguenza! - della mia attività artistica. Se dovessero diventare un fine, probabilmente
la mia vita si trasformerebbe in un inferno.
D. – Un’ultima domanda sulla comunicazione,
che oggi pervade ogni ambito della nostra vita: lei, come artista, portato quindi
a ricercare anche momenti di isolamento creativo, soffre la sovraesposizione mediatica
e se sì come si difende?
R. – No, non la soffro. Anche perché i media rappresentano
per me, nel loro senso concreto del termine, dei mezzi: dei mezzi per esprimere e
per veicolare dei contenuti. Ciò che conta sono i contenuti. Se si ha davvero qualcosa
da dire, ci sarà dall’altra parte qualcuno disposto ad ascoltare e a fare tesoro di
ciò che viene detto, indipendentemente dal mezzo che viene utilizzato. Dunque, ci
sono dei momenti in cui io sento fortemente la necessità di esprimere il mio mondo
interiore attraverso la musica e di condividerlo. Come conseguenza, si determina una
esposizione mediatica, ma è soltanto una conseguenza di quello che io sento di dover
fare dentro di me. Credo che sia questo ciò che conta in assoluto.
D. – Bisogna
avere, però, l’equilibrio di ritirarsi quando è necessario, raccogliersi in se stessi…
R.
– Certo, assolutamente. Ed è quello il momento in cui inevitabilmente la cosiddetta
esposizione mediatica finisce o si limita. Ma tutto, tutto parte da quello che hai
dentro, da quello che vuoi esprimere e da quando vuoi esprimerlo. Non sono spaventato.
Trovo tutto molto naturale.
D. – Maestro Allevi, lei oggi parlerà a degli
studenti di una Università pontificia, una Università cattolica. Nella sua arte c’è
la ricerca dell’aldilà?
R. - Sì, deve esserci. Io lo ho sempre considerato
come un fine della mia arte, ma credo anche dell’arte in generale, quello di riuscire
a cogliere una luce. E’ l’esigenza che viene da me, che sono la persona più piccola
e che mi riputo avvolta nell’ansia e spesso in contatto con il buio dell’anima: ecco,
questa persona che sono cerca, cerca spasmodicamente una luce. Io la trovo nella musica,
nella musica che scrivo, e quindi penso che come principio regolativo questa musica
voglia condurmi verso una dimensione superiore. Non so se riesca a farlo, però lo
considero un fine, lo considero un fine della mia musica.