Un anno con Papa Francesco, la Chiesa dalle porte aperte
Il 13 marzo di un anno fa veniva eletto alla Cattedra di Pietro il cardinale Jorge
Mario Bergoglio. Iniziava così il Pontificato di Papa Francesco, il 265.mo Successore
di Pietro, un mese dopo la storica rinuncia al ministero petrino di Benedetto XVI.
Ripercorriamo alcuni passaggi chiave di questo anno straordinario, un tempo di misericordia,
nel servizio di Alessandro Gisotti:
“Fratelli
e sorelle buonasera!”
Il Pontificato dirompente di Francesco inizia con
il saluto più normale. Eppure non è un controsenso, perché quella di Jorge Mario Bergoglio
è la rivoluzione della semplicità evangelica, dell’umiltà, della normalità che sorprende
e scandalizza. I primi gesti del nuovo Papa – il primo con il nome del Poverello d’Assisi,
il primo gesuita, il primo dall’America Latina – rompono schemi e consuetudini, a
partire da quel chinarsi, la sera dell’elezione, per chiedere la benedizione del popolo.
Vescovo e popolo, appunto, un binomio che Papa Francesco indica subito come
“programma” del suo ministero petrino. Il nuovo Vescovo di Roma pensa a una Chiesa
che “cammina, edifica e confessa”, come sottolinea nella prima Messa da Romano Pontefice,
il giorno dopo l’elezione, in Cappella Sistina. E sogna una “Chiesa povera” come confida
ai giornalisti di tutto il mondo - ricevuti in Aula Paolo VI - ricordando l’esortazione
che, in Conclave, gli aveva rivolto il suo amico cardinale Hummes:
“'Non
dimenticarti dei poveri!'. E quella parola è entrata qui: i poveri, i poveri. Poi,
subito in relazione ai poveri ho pensato a Francesco d’Assisi. Poi, ho pensato alle
guerre, mentre lo scrutinio proseguiva, fino a tutti i voti. E Francesco è l’uomo
della pace. E così, è venuto il nome, nel mio cuore: Francesco d’Assisi. L’uomo della
povertà, l’uomo della pace, l’uomo che ama e custodisce il Creato, in questo momento
in cui noi abbiamo con il Creato una relazione non tanto buona, no? E’ l’uomo che
ci dà questo spirito di pace, l’uomo povero … Ah, come vorrei una Chiesa povera e
per i poveri!”. (Incontro con i giornalisti, 16 marzo 2013)
Un’opzione
preferenziale per i poveri, che Papa Francesco “ridice” con la sua sobrietà, con la
scelta di vivere a Casa Santa Marta, di non utilizzare auto di rappresentanza per
gli spostamenti, nel testimoniare insomma – come afferma nella Messa di inizio ministero
petrino – che “il vero potere è il servizio”. E soprattutto con il richiamo continuo,
in particolare nella sua storica visita ad Assisi, a spogliarsi della “mondanità spirituale”
che porta “al peccato più forte, quello dell’idolatria”. Per rifuggire questa tentazione,
osserva, dobbiamo lasciarci amare da Dio che è Padre, abbandonarci nel suo abbraccio.
Proprio al tema della misericordia, iscritta nel Dna oltre che nel motto episcopale
del vescovo Bergoglio (Miserando atque eligendo – “…lo guardò con sentimento
di amore e lo scelse”), è dedicato il primo Angelus di Francesco, in una Piazza San
Pietro strabocchevole di fedeli. “Dio – rammenta – non si stanca mai di perdonarci”:
“Lui,
mai si stanca di perdonare, ma noi, a volte, ci stanchiamo di chiedere perdono. Non
ci stanchiamo mai, non ci stanchiamo mai! Lui è il Padre amoroso che sempre perdona,
che ha quel cuore di misericordia per tutti noi. E anche noi impariamo ad essere misericordiosi
con tutti”. (Angelus 17 marzo)
Un messaggio che il Papa porta personalmente
ai giovani carcerati di Casal del Marmo, il Giovedì Santo. La misericordia di Dio
ci trasforma, rassicura Francesco, ci dona una speranza che è più forte degli errori
compiuti nel cammino della nostra vita. Esortazione che il Papa estende a tutti, specialmente
alla gioventù, in un tempo segnato da sfiducia e mancanza di punti di riferimento:
“E per favore, non lasciatevi rubare la speranza! Non lasciate rubare la
speranza! Quella che ci dà Gesù”. (Domenica delle Palme, 24 marzo 2013)
E
la speranza si annuncia con il sorriso. Impossibile, per Papa Francesco, “un cristiano
triste” con “la faccia da funerale”. Così come è impensabile un Vangelo che resti
chiuso nel recinto delle proprie comunità. Bisogna andare nelle “periferie esistenziali”,
esorta, laddove “c’è tanta sofferenza”. Non a caso, le prime parrocchie visitate dal
nuovo Vescovo di Roma sono in aree periferiche della città. “Meglio una Chiesa incidentata
– ne è convinto – che una ammalata di autoreferenzialità”. Tutti i battezzati, ripete
instancabilmente, sono chiamati ad essere “discepoli e missionari”:
“Seguire,
accompagnare Cristo, rimanere con Lui esige un ‘uscire’. Uscire da se stessi, da un
modo di vivere la fede stanco e abitudinario, dalla tentazione di chiudersi nei propri
schemi che finiscono per chiudere l’orizzonte dell’azione creativa di Dio”. (Udienza
generale, 27 marzo 2013)
Creativa e sorprendente. Il Dio di Bergoglio,
del resto, è quello di Ignazio di Loyola, Deus semper maior, il “Dio delle
sorprese”. In fondo, è proprio la sorpresa della Rinuncia di Benedetto XVI che apre
la strada alla sorpresa dell’Elezione di Francesco. In tanti, all’indomani del Conclave,
si interrogano preoccupati sulla “convivenza tra i due Papi”, un inedito assoluto
nella storia della Chiesa. Timori spezzati, come un incantesimo, dal primo storico
abbraccio tra i due Successori di Pietro, il 23 marzo a Castel Gandolfo. “Siamo fratelli”,
sussurra l’uno all’altro prima che si raccolgano assieme in preghiera. E’ l’inizio
di un rapporto senza precedenti, che rende ancora più luminoso il Pontificato e che
dà vita alla Lumen Fidei, la prima Enciclica di Francesco che conclude il lavoro
iniziato dal suo predecessore. Apostolo della tenerezza, il Papa è però fermo nell’esigere
che i vescovi siano pastori, non burocrati. A loro chiede di avere il coraggio di
lottare per il proprio Popolo. Il pastore, incalza Francesco, deve saper stare non
solo davanti al suo gregge, ma anche in mezzo e dietro le sue pecore perché nessuna
si perda. E questo vale per il Papa, per i vescovi, per tutti i sacerdoti:
“Questo
io vi chiedo: siate pastori con l’odore delle pecore, pastori in mezzo al proprio
gregge, e pescatori di uomini”. (Messa crismale, 28 marzo 2013)
E per essere
pescatori di uomini bisogna salpare e andare a largo senza timori. “Di frequente –
ammonisce nella sua prima Esortazione Apostolica, la Evangelii Gaudium – ci
comportiamo come controllori della grazia e non come facilitatori. Ma la Chiesa non
è una dogana, è la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa”.
La Chiesa di Francesco ha le porte aperte. E non solo perché le persone possano entrarvi,
ma anche perché Gesù possa uscire e andare incontro alle donne e agli uomini del nostro
tempo:
“Una porta chiusa! Questo non è un buon zelo! Allontana dal Signore!
Non apre le porte! E così quando noi siamo su questa strada, in questo atteggiamento,
noi non facciamo bene alle persone, alla gente, al Popolo di Dio. Ma Gesù ha istituito
sette Sacramenti e noi con questo atteggiamento istituiamo l’ottavo: il sacramento
della dogana pastorale!”. (Messa Santa Marta, 25 maggio)
Le parole di Francesco,
semplici e profonde, che attingono direttamente al vissuto quotidiano fanno vibrare
il cuore di milioni di persone, non solo nella Chiesa. Ancor più, forse, riescono
a fare i gesti del nuovo Pontefice tutto proteso a far toccare con mano cosa intenda
quando parla della “cultura dell’incontro”. Francesco è il Papa che abbraccia i malati,
che non si sottrae ad un autoscatto con un gruppo di ragazzi, che prende il caffè
nella baracca di una favela brasiliana. La Chiesa - nella sua visione, svelata nella
lunga intervista a Civiltà Cattolica - è un “ospedale da campo”, la cui missione
è curare i feriti di questo mondo. Parole che fanno pensare subito alla sua prima
visita pastorale in quel piccolo lembo di terra in mezzo al mare che è Lampedusa,
crocevia di speranze e troppo spesso di morte e sofferenze. E’ lì, con davanti agli
occhi i volti disperati dei migranti, che Francesco leva un vibrante appello. Di più,
indirizza un interrogativo lancinante alle coscienze di ognuno di noi:
“Chi
ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone
che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi
uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società
che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del ‘patire con’: la globalizzazione
dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere!”. (Messa a Lampedusa, 8 luglio
2013)
Quella “capacità di piangere” che Francesco non ha perso, come sperimentano
i disoccupati e i precari incontrati nella sua visita a Cagliari. Il Papa si commuove
ascoltando le testimonianze di chi ha perso il lavoro, mette così da parte il discorso
preparato e a braccio manifesta la sua empatia con chi soffre. “Senza lavoro – denuncia
– non c’è dignità”:
“Lavoro, Lavoro, Lavoro. E’ una preghiera, una preghiera
necessaria. Lavoro vuol dire dignità, lavoro vuol dire portare il pane a casa, lavoro
vuol dire amare! Per difendere questo sistema economico idolatrico si istaura la cultura
dello scarto: si scartano i nonni e si scartano i giovani. E noi dobbiamo
dire ‘no’ a questa cultura dello scarto”. (Discorso a Cagliari,
22 settembre 2013)
Giovani e anziani. Il Papa torna spesso a mettere l’accento
sulla solidarietà intergenerazionale. Lo fa anche alla Gmg di Rio de Janeiro, una
festa della fede che trasforma la spiaggia di Copacabana in un gigantesco Cenacolo
a cielo aperto con oltre tre milioni di ragazzi di tutto il mondo. “Il Papa conta
su di voi”, assicura Francesco che chiede loro di andare controcorrente. E con una
metafora efficace, afferma che “Gesù ci offre qualcosa di superiore della Coppa del
Mondo!” Anche in Brasile, il Papa colpisce per la semplicità dei suoi modi e la naturalezza
con la quale si lascia letteralmente “catturare” dall’abbraccio della gente. Indimenticabile
l’immagine del Pontefice che sale le scalette dell’aereo con la borsa in mano. E a
chi gli chiede stupito il perché di questo gesto, risponde con disarmante semplicità:
“Non
c’era la chiave della bomba atomica! Mah! La portavo perché sempre ho fatto così:
io, quando viaggio, la porto (…)Mah dobbiamo abituarci ad essere normali.
La normalità della vita” (Conferenza stampa aereo, 28 luglio 2013)
Una
normalità che spiazza i giornalisti ai quali Francesco - di ritorno dal Brasile -
risponde “senza paracadute” sui temi più scottanti, dalla lobby gay alla comunione
ai divorziati, dallo Ior alla riforma della Curia. La riorganizzazione del governo
della Chiesa, del resto, è tra le priorità dell’agenda del nuovo Pontefice che, per
tale obiettivo, istituisce un Consiglio di 8 cardinali, espressione dei 5 continenti.
Tuttavia la prima riforma che ha in mente Papa Francesco è la “conversione dei cuori”.
Una riforma che viene alimentata, giorno dopo giorno, dalle Messe a Casa Santa Marta,
rilanciate, poco dopo, in tutto il mondo dalla Radio Vaticana. Le omelie di Francesco
- ora tenere come carezze, ora taglienti come lame - diventano i fili dell’ordito
su cui il Vescovo di Roma tesse la trama della sua azione pastorale. Lo “stile Santa
Marta” non resta però confinato nella cappella della “casa del Papa”. Nelle udienze
generali come negli altri incontri, Francesco coinvolge sempre chi lo ascolta, crea
degli “eventi comunicativi”. Anche le catechesi assumono la forma di un dialogo, anzi
di una “conversazione” con i fedeli:
“‘Permesso', 'scusa', 'grazie': se
in una famiglia si dicono queste tre parole, la famiglia va avanti. 'Permesso', 'scusami',
'grazie'. Quante volte diciamo 'grazie' in famiglia? Quante volte diciamo grazie a
chi ci aiuta, ci è vicino, ci accompagna nella vita? Spesso diamo tutto per scontato!
E questo avviene anche con Dio”. (Giornata mariana, 13 ottobre 2013)
Papa
Francesco si fa megafono della voce degli ultimi e condanna a più riprese le violazioni
della dignità degli esseri umani, in particolare la tratta, “nuova forma di schiavitù”.
Candidato al Nobel per la pace, il Papa convoca una Veglia di preghiera per la fine
del conflitto in Siria a cui aderiscono persone di ogni fede e anche non credenti.
Nella Evangelii Gaudium, denuncia inoltre con vigore l’iniquità che genera
violenza. “Il denaro – è il suo monito – deve servire non governare”. Altrimenti la
vita delle persone perde tutto il suo valore:
“Pensate ai bambini affamati
nei campi dei rifugiati… Pensate a questo soltanto: questo è il frutto della guerra!
E se volete, pensate ai grandi salotti, alle feste che fanno quelli che sono i padroni
delle industrie delle armi, che fabbricano le armi, le armi che finiscono lì. Il bambino
ammalato, affamato, in un campo di rifugiati e le grandi feste, la buona vita che
fanno quelli che fabbricano le armi”. (Omelia a Casa S. Marta, 25 febbraio 2014)
Il
Papa, tuttavia, sferza anche l’uso di altre armi: le chiacchiere, perché anche quelle
– avverte – uccidono, portano divisione, “spellano le persone”. Un ammonimento che
Francesco rivolge anche ai 19 nuovi cardinali - tra cui il segretario di Stato, Pietro
Parolin – creati nel suo primo Concistoro a fine febbraio:
“Il Cardinale
- specialmente a voi lo dico - entra nella Chiesa di Roma, fratelli, non entra in
una corte. Evitiamo tutti e aiutiamoci a vicenda ad evitare abitudini e comportamenti
di corte: intrighi, chiacchiere, cordate, favoritismi, preferenze. Il nostro linguaggio
sia quello del Vangelo: 'sì, sì; no, no'; i nostri atteggiamenti quelli delle Beatitudini,
e la nostra via quella della santità”. (Messa per i nuovi cardinali, 23 febbraio 2014)
I
primi 12 mesi di Pontificato sono contraddistinti da una popolarità strabordante di
Francesco a livello mondiale, anche in ambienti lontani dalla Chiesa. Il suo account
Twitter, aperto da Benedetto XVI, supera i 12 milioni di follower. Papa Francesco
conquista Internet e la rivista Time lo incorona “Personaggio dell’anno”. Ma
quando, a Piazza San Pietro, i pellegrini lo accolgono gridando più volte “Francesco”,
lui risponde: “Non Francesco ma Gesù!”. E invita i fidanzati, incontrati il giorno
di San Valentino, a chiedere dal Signore “l’amore quotidiano”, a credere nella bellezza
della scelta “per sempre” del matrimonio. Francesco ha particolarmente a cuore la
famiglia e le sue sfide pastorali. A queste dedica un Concistoro straordinario in
vista del Sinodo del prossimo ottobre. Anche qui, Francesco si china a versare l’olio
del Buon Samaritano sulle ferite di chi, per mille ragioni, ha sperimentato il fallimento
della propria unione e cerca un abbraccio accogliente:
“…dobbiamo sentire
il dolore del fallimento, accompagnare quelle persone che hanno avuto questo fallimento
nel proprio amore. Non condannare! Camminare con loro! E non fare casistica con la
loro situazione”. (Messa a S. Marta, 28 febbraio 2014)
“Misericordia –
disse una volta il cardinale Bergoglio – è il nome del nostro Dio”. Un nome che, ora,
il mondo intero può ascoltare dalle labbra di Papa Francesco.