La Radio Vaticana tra i rifugiati sud sudanesi: appello al Papa dai campi profughi
in Uganda
Per sette giorni, dal 3 al 7 marzo, 60 professionisti, tra giornalisti e tecnici,
provenienti da sei radio ugandesi, hanno preso parte a un workshop di formazione,
organizzato ad Arua, nel nord-ovest dell'Uganda, nei pressi del confine con Congo
e Sud Sudan, per iniziativa del Crec International. Ad ospitare i corsi è stata Radio
Pacis e a condurli sono stati Sean-Patrick Lovett, responsabile della Sezione Inglese
della Radio Vaticana, e padre Fabrizio Colombo MCCJ, direttore di Signis Roma. Nel
corso degli incontri più volte è stato ribadito il fondamentale ruolo della radio
in vaste aree rurali spesso prive di elettricità, soprattutto nei campi profughi che
ospitano migliaia di persone in fuga dai combattimenti in Sud Sudan. Ad oggi, secondo
la Croce Rossa locale, ci sono oltre 70mila civili in questi campi, e ogni giorno
ne arrivano in media 150. In uno di questi Sean Lovett ha incontrato i rifugiati
che lo popolano, e Francesca Sabatinelli ha raccolto la sua testimonianza:
R. – Sono donne,
sono bambini e sono giovani, giovani teenager, ci sono pochi vecchi, perché non possono
correre, e gli uomini non ci sono perché o sono morti o stanno combattendo. L’immagine
che ho è soprattutto quella di questi teenager. I bambini riescono a giocare con una
palla fatta di spago, le donne sono troppo occupate a cucinare, pulire, costruire
capanne, e invece i ragazzi restano seduti a terra, sotto un albero, con niente da
fare, in un limbo, in un “non luogo”, perché sono “non persone”: non possono tornare
indietro, non possono andare avanti e non sanno per quanti anni dovranno restare dentro
questi campi.
D. – Sono rifugiati, persone invisibili in un “non luogo”, come
dicevi tu, e così come in tante altre parti del mondo, mancano dei beni di prima necessità,
e questo è ciò che tu hai visto...
R. – Non ho mai visto così tanto “niente”.
Il governo ugandese mette a disposizione dei pezzetti di terra, ogni tanto l’Unhcr
arriva e mette un serbatoio per l’acqua o aiuta a scavare un pozzo, anche altri enti
umanitari entrano ogni tanto e portano le cose di prima necessità. Non ci sono strutture,
non ci sono nemmeno tende, quelle che normalmente si associano alle classiche immagini
di un campo per rifugiati. Non c’è nulla. Le persone arrivano e cominciano a tagliare
gli alberi per costruirsi delle capanne, questa è la prima cosa che fanno. Non ci
sono latrine e quindi sono enormi i problemi di igiene. Le latrine sono a cielo aperto.
Il cibo non c’è e quindi scavano un buco nella terra e cercano di far crescere qualcosa.
Sono situazioni veramente disperate.
D. – Una situazione di disperata solitudine,
in cui però i rifugiati contano sulla vicinanza della Chiesa cattolica…
R.
– La Chiesa cattolica cerca di essere presente attraverso i suoi catechisti, e questa
è una cosa straordinaria, perché sono nativi della zona in cui si trovano, e portano
avanti un lavoro straordinario di educazione, di formazione, di catechesi con la gente
locale. Sono presenti anche in questi campi. Sono proprio questi catechisti spesso
a sentire i profughi e diventano i loro rappresentanti anche con le autorità e con
le istituzioni.
D. – In che mondo, ciò che accade altrove, soprattutto nei
loro Paesi di origine, entra in questi campi tagliati fuori da qualsiasi tipo di informazione?
R. – Non c’è elettricità, quindi figuriamoci i contatti televisivi e così
via. Non ci sono giornali. C’è un solo libro in tutto il campo, per duemila persone.
C’è, però, la radio. Ci sono queste vecchie radioline con un’antenna fatta di un pezzo
di ferro arrangiato, che spesso sono l’unico contatto con il mondo esterno. Quindi,
si trovano delle persone raggruppate attorno alla radio, dentro una capanna, all’ombra,
che ascoltano, per sapere cosa sta succedendo nel Paese da dove provengono e quello
che succede nel mondo esterno. E’ fonte, quindi, di informazione, di notizie ed è
anche semplicemente una voce di consolazione, di conforto, di accompagnamento. La
Radio Vaticana è andata in questa zona ad offrire un corso di formazione alla radio
cattolica locale, che si chiama Radio Pacis, che è l’unica radio che si sente dentro
il campo profughi che io ho visitato. E’ straordinario stare lì, accendere questa
radio e sentire anche la Radio Vaticana. La Radio Vaticana è presente come una delle
poche voci dentro i campi profughi. Loro, infatti, ritrasmettono i programmi del nostro
Programma Inglese Africa. Loro sanno chi è Papa Francesco, a prescindere dalla religione,
che siano musulmani, protestanti, cattolici o quello che sia, sanno che Papa Francesco
rappresenta un’autorità cui loro possono rivolgersi. E mi hanno chiesto di portare
un messaggio a Papa Francesco: che preghi, perché torni una situazione di stabilità
e pace nel Sud Sudan. L’unica speranza, l’unico desiderio di queste persone è tornare
a casa. Loro vedono Papa Francesco come interlocutore, come qualcuno che può intervenire
per loro, per chiedere al mondo di intervenire. Questo è il messaggio che loro mi
hanno chiesto di portare indietro, qui. Sanno che il Papa può fare qualcosa, perché
sentono le trasmissioni della Radio Vaticana. Ogni volta, quindi, che noi trasmettiamo
un programma che parla di loro, si sentono incoraggiati, rafforzati, accompagnati,
non più soli. Non puoi immaginare quanto sia importante il potere, la forza della
radio, ma ‘radio’ nel senso più antico, vecchio, tradizionale della parola. Quella
scatolina ha ancora il suo valore: accompagna queste persone.