Boris Pahor, scrittore sloveno di Trieste: in un volume il dramma di una minoranza
linguistica
L’importanza fondamentale di conoscere la verità e di farne memoria sottende l’intero
impegno letterario di Boris Pahor, uno dei maggiori scrittori sloveni di cittadinanza
italiana. Nato a Trieste ha compiuto 101 anni e sulla sua pelle ha vissuto tutte le
vicende drammatiche che hanno attraversato il ‘900 europeo e in particolare la comunità
slovena della sua città. Il volume “Così ho vissuto”, edito da Bompiani e presentato
di recente a Roma dall'autore stesso, raccoglie tutto questo e risponde alla necessità
di dare finalmente testimonianza delle violenze inflitte alla minoranza di lingua
slovena, sconosciute ai più. Il servizio di Adriana Masotti:
Aveva sette
anni Boris Pahor quando la Narodni Dom, la Casa della cultura slovena di Trieste andò
a fuoco, incendiata dai fascisti: un ricordo incancellabile inizio e simbolo di tutti
i soprusi che seguiranno. Così, alla presentazione della sua biografia, curata da
Tatjana Rojc, lo scrittore racconta le vicende legate al minoranza linguistica, un
tempo la seconda anima di Trieste:
“Praticamente, eravamo circa 600 mila
persone della Venezia Giulia che eravamo sloveni e croati, di cui l’Italia non sa
niente, perché nei libri di storia non c’è scritto niente di questo! Ci sono stati
grandi combattimenti, grandi perdite nella Prima Guerra Mondiale, ma nessuno ha detto
che si andava a conquistare la terra di un popolo! Quindi, questo libro in cui si
parla della mia vita, praticamente è un libro di storia. Perciò, qua ci sarà una scoperta
forse non molto amata da quelli che non ci vogliono bene, che diranno: “Che bisogno
c’era di parlare di questi sloveni, della loro cultura?”. C’era bisogno! C’era bisogno
perché prima che il fascismo incominciasse a bruciare le Case della cultura e che
proibisse la lingua slovena, le biblioteche slovene, la scuola slovena eccetera, c’era
la seconda anima di Trieste. Dostojevski ha scritto un libro che si chiama “Umiliati
e offesi”: umiliati e offesi, ma questi siamo noi sloveni sotto il fascismo! E questo
libro è un libro prezioso di storia, perché incomincia con la Trieste austriaca, parla
della Trieste fascista, parla pian piano di quello che è stato il dopoguerra… Anche
il dopoguerra è stata di nuovo una storia difficile, perché Tito era comunista e voleva
avere Trieste, e per gli occidentali dare Trieste ai comunisti era assolutamente impossibile.
Hanno fatto il territorio libero che non è mai nato veramente, e allora hanno deciso
finalmente di tagliare il territorio libero in due parti: nel ’54 hanno dato un pezzettino
– Pirano, Isola e Capodistria – alla Slovenia; il resto l’hanno dato all’Italia, quindi
Trieste e tutti i paesi sloveni dopo la frontiera di Trieste, che parlavano sloveno
e lo parlano anche oggi, gli sloveni nati in Italia … Hanno trovato una soluzione
di Salomone, e così siamo arrivati – piano piano – ad una specie di convivenza, qui
da noi …”
Dopo gli anni dolorosi del fascismo, l’esperienza militare in
Libia, l’adesione al Fronte di liberazione sloveno e poi la prigionia in diversi lager
nazisti che Pahor ripercorre in gran parte della sua produzione letteraria:
“Durante
i campi di concentramento, con la fame che c’era e con la morte che c’era ogni giorno,
praticamente nei campi bruciavano giorno e notte i nostri malati, morti per lavoro,
perché si era nel campo di concentramento e bisognava lavorare dieci ore al giorno
con un pezzo di pane che era grande come un palmo della mano e con una minestra che
era fatta con le rape gialle, quella roba là … Era studiato apposta, in maniera che
il corpo deperisse ogni giorno, però bisognava lavorare e quando uno non capiva più
niente, e perdeva anche il bene dell’intelletto, lo mettevano lì ad aspettare che
diventasse pelle e ossa e poi si andava al forno crematorio. Tutti i nostri campi
di concentramento erano campi con forni crematori per noi, e di questo si parla poco.
Purtroppo, hanno fatto eliminare un gran numero di ebrei e noialtri ci eliminavano
in silenzio, con la fame, eccetera … In questo senso, è tutto poco conosciuto. Dachau,
Buchenwald, Dora – il nostro campo in Francia – tutti questi campi erano campi per
civili di diverse nazioni. A Trieste anche c’era un forno crematorio, quindi lì andavamo
noialtri sloveni e croati dell’Istria, a finire ad essere cenere anche là … Anche
questo è poco conosciuto”.
Testimonianze di un recente passato che sono
monito per un tempo presente che rischia di dimenticare l’orrore o in qualche misura
di riproporlo quando pratica l’intolleranza nei confronti dell’altro e del diverso.
Ancora Boris Pahor:
“Io non sono comunista, no. Sono sempre stato un cristiano
sociale, ma è la verità, questo, oggi, no? E’ la verità che il capitale, il denaro
ha praticamente in mano il mondo! Vedete, che tutto questo problema di cui noi parliamo,
di lingue, di diritti eccetera: è tutto legato, non c’è niente di cui si possa dire
“questo non riguarda me o te”. Poi, altro punto: siamo nella questione della vita
di domani che abbiamo di fronte, e cosa fare per la vita di domani in maniera che
possa essere una vita più accettabile per l’uomo intelligente, per l’uomo evoluto
che invece muore di fame in Africa … Capite che tutto il mondo è alla rovescia e che
bisogna rimetterlo a posto, e che abbiamo tutti l’obbligo di rimetterlo a posto con
le facoltà che abbiamo!”
Chiude il volume “Così ho vissuto” queste parole
scritte da Pahor e che suonano quasi un testamento: “Io sono pessimista con la ragione
ma tendenzialmente ottimista con il cuore, perché credo che arriveremo al punto in
cui l’uomo troverà una formula, una formula molto semplice: l’amore. Altre vie non
ce ne sono”. Parole ripetute da Pahor a Roma: