Mons Biguzzi: in Sierra Leone serve più formazione per sconfiggere sfruttamento e
corruzione
In Sierra Leone bisogna formare competenze per togliere il Paese dal giogo dello sfruttamento.
Così in sintesi mons. Giorgio Biguzzi, 35 anni nel Paese africano, commentando
la chiusura ufficiale della missione di pace delle Nazioni Unite, istituita 15 anni
fa durante la guerra civile in Sierra Leone. Il conflitto, durato dal 1991 al 2002,
ha causato - lo ricordiamo - almeno 120mila vittime. Massimiliano Menichetti
ha raccolto il commento proprio di mons. Biguzzi vescovo di Makeni fino al 2012 e
già presidente della conferenza episcopale della Sierra Leone:
R. – Penso che
si possa sostenere che sia stato una missione di successo, in Sierra Leone. Io sono
stato presente per tutto il periodo: i vari combattenti si sono fidati delle truppe
Onu. La guerra era stata condotta in modo molto sanguinoso dai combattenti locali,
i ribelli del Ruf (Revolutionary United Front), milizie Kamajors e dall’Ecomog, cioè
dal soldati della Comunità economica dell’Africa occidentale, al 90% nigeriani.
D.
– Perché si causò il conflitto?
R. – Anzitutto, dite che non era a sfondo religioso
né a sfondo tribale: era a sfondo economico-sociale, cioè lo Stato era praticamente
crollato, nel senso che non c’erano più servizi sociali, la corruzione dilagava –
si aveva l’impressione che alcuni dei ministri saccheggiassero lo Stato – quindi è
bastata una spinta di qualcuno che non aveva neanche un progetto per farlo cadere,
e tutto è finito nel caos.
D. – Nel ’91 i ribelli del Fronte unito rivoluzionario
invasero la Sierra Leone dalla Liberia …
R. – Vennero dalla Liberia e, come
detto, lo Stato era quasi un edificio fragilissimo e bacato, è crollato e crollando
ci sono andate di mezzo decine di migliaia di persone innocenti, civili …
D.
– Lei era lì: fu un momento dolorosissimo …
R. – Dolorosissimo, dolorosissimo!
Io ricordo la prima volta, la prima massa di rifugiati interni, mi era venuto quasi
da piangere a vedere persone con le mani tagliate, sanguinanti, "bambini soldato"
morti sulle strade, la paura, l’insicurezza totale, il crollo dell’economia e quindi
anche la fame …
D. – Nel ’99, però, le cose iniziano a cambiare.
R.
– Il 7 luglio c’è stata la firma del Trattato di pace, e quando sono venuti i soldati
di pace per il disarmo, i combattenti si sono fidati. C’erano tra gli articoli del
Trattato, la cessazione immediata delle ostilità, il disarmo, la riabilitazione dei
combattenti, la trasformazione del Ruf in partito politico, la costituzione di un
tribunale speciale per i maggiori responsabili dei crimini: per questo si è poi costituito
in Sierra Leone un tribunale misto che ha trovato le sue conclusioni in Olanda, all’Aja,
con la condanna di colui che era stato il Presidente della Liberia Charles Taylor.
D.
– Oggi, invece, che volto ha il Paese?
R. – C’è stato il disarmo, c’è stata
la riconciliazione nazionale, c’è stata la ripresa della legittimità con lezioni pacifiche
e anche abbastanza pacifiche già nel 2002, nel 2007 e nel 2012. Si è mossa molto anche
la ricostruzione: ci sono stati grossi investimenti nelle materie prime, costruzioni
di strade, infrastrutture; però, innanzitutto c’è ancora corruzione dilagante a tutti
livelli, c’è grandissima disoccupazione e poi non sembra che ci sia un controllo adeguato
delle concessioni a queste multinazionali. Ci sono grossi interrogativi sulla ricaduta
sulle persone, sui villaggi, sugli operai, sui contadini.
D. – Il Paese si
sta ricostruendo grazie alla popolazione, o soggetti internazionali stanno approfittando
del Paese?
R. – Innanzitutto, diamo credito alla popolazione, però i governi
si sono appoggiati molto a queste concessioni fatte a multinazionali cinesi, europee,
sudafricane, australiane che sono tutto un conglomerato … Quindi, il governo ne trae
dei ricavi, però ha posto grossi interrogativi sull’ecologia per la distruzione non
solo delle foreste, ma sull’utilizzo delle acque. Poi ci sono stati gli espropriati
che magari all’inizio si sono illusi che avrebbero avuto tanto lavoro, ma questo non
sembra accadere … Poi, ci sono i servizi sociali che sono ancora molto inadeguati,
a cominciare dall’istruzione.
D. – Secondo lei, qual è la sfida che deve affrontare
adesso il Paese, dato che la missione è finita?
R. – Rafforzare le istituzioni
nazionali: la giustizia, la corruzione, la trasparenza dei contratti con le multinazionali
in cui si veda la ricaduta positiva sulla gente; e poi, la preparazione dei quadri
locali. Bisognerebbe veramente investire sulle persone, investire sulla formazione,
altrimenti si continuerà a sfruttare sempre le materie prime, però sotto la direzione
di qualcun altro.
D. – La Chiesa e anche i missionari sono stati molto presenti
durante gli anni del conflitto: ora che ruolo hanno?
R. – Ora, ovviamente,
il ruolo dei missionari è al servizio di una Chiesa locale, di una gerarchia locale
che è cresciuta. La Chiesa locale è molto impegnata, ovviamente, nell’evangelizzazione;
poi, attraverso le Caritas locali, per i servizi sociali. La Chiesa già da 100 anni
si è sempre impegnata nelle scuole, fin nei villaggi più sperduti, dove non c’era
andato nessuno! In un Paese che è al 60-70% musulmano, le Chiese cristiane gestiscono
il 43% delle scuole. Poi, la Chiesa è coinvolta tradizionalmente nelle cliniche e
negli ospedali. Poi, ci sono le suore di Madre Teresa che hanno avuto quattro martiri,
durante la guerra: quattro delle loro suore sono state uccise; hanno due Centri, uno
nella capitale e uno a Makeni,dove curano i più poveri dei poveri.