Sud Sudan: 900 mila sfollati. Una missionaria comboniana: "La gente ha perso la speranza"
Sono stati aggiornati al 20 marzo i colloqui di pace per una soluzione politica al
conflitto esploso nel Sud Sudan il 15 dicembre scorso e costato la vita ad almeno
10 mila persone. Lo riferiscono i mediatori dell'Autorità intergovernativa dello sviluppo
(Igad), che parlano di progressi nel round di negoziati che si è concluso, ieri sera,
in Etiopia tra governativi e ribelli. La situazione sul terreno, tuttavia, resta molto
difficile. Oggi l'Unicef ha denunciato 900 mila sfollati, metà dei quali sono bambini.
Lo testimonia suor Elena Balatti missionaria comboniana appena giunta a Juba
da Malakal, capoluogo dello Stato petrolifero dell’Alto Nilo, da dove è dovuta fuggire
dopo l’ultimo assalto dei ribelli, fedeli all’ex vicepresidente Riek Machar, che hanno
saccheggiato case e aggredito la popolazione locale con indicibili violenze. Gabriella
Ceraso l’ha raggiunta telefonicamente a Juba:
R. - In questi
due mesi, dal 24 dicembre al 18 febbraio del 2014, la città di Malakal, ha cambiato
di mano 5 volte, e poi è rimasta nelle mani delle forze ribelli. Gli abitanti di Malakal,
che sono calcolati intorno ai 250 mila, hanno lasciato la città. Progressivamente
la situazione è andata peggiorando. Elementi ribelli hanno saccheggiato il cortile
della chiesa, le poche proprietà rimaste alla gente che vi si era rifugiata e parte
delle nostre case, le macchine e oltre a questo ci minacciavano. Perciò abbiamo lasciato
la nostra casa, la cattedrale, e ci siamo spostati verso la chiesa presbiteriana ma
anche lì la situazione era la stessa e quindi ci siamo spostati alla base delle Nazioni
Unite.
D. - Le Nazioni Unite stanno facendo un lavoro importante? Quante persone
riescono ad aiutare?
R. - Le Nazioni Unite hanno cercato di fare del proprio
meglio per fronteggiare un’emergenza di queste proporzioni, cioè ventimila persone
rifugiate presso il loro campo. Le Nazioni Unite hanno la possibilità di negoziare
direttamente con il capo dei ribelli, con i capi militari e anche i capi politici.
Perciò per i capi militari e politici della ribellione è conveniente mantenere un’immagine
a livello internazionale; fino ad ora non hanno generalmente lasciato che le loro
forze attaccassero le loro basi. In questo senso, la semplice presenza delle Nazioni
Unite sul territorio è importante perché la popolazione vi può trovare rifugio, anche
se le condizioni di vita sono estremamente difficili dal momento che manca tutto.
Però almeno hanno una certa sicurezza.
D. – Per queste persone cosa augurarsi
da un processo di pace che sembra andare avanti, per ora con molto a fatica, in Etiopia?
R.
- C’è da augurarsi che questo processo di pace porti frutti concreti al più presto,
che la stabilità torni in tutte quelle aree. La stagione delle piogge renderà la vita
nei campi per i rifugiati ancora più difficile. C’è da augurarsi che i negoziati di
pace portino frutto così che la gente possa tornare, anche se non nelle città, ma
almeno nei villaggi, e che possa cominciare a coltivare, possa avere di nuovo speranza
di avere un proprio Paese, un proprio territorio.
D. - A livello di Chiesa,
localmente, che cosa potete fare ora e che presenza è rimasta sul territorio?
R.
– La diocesi di Malakal, al momento, ha pochissimo personale sul territorio. Il resto
del personale è rifugiato in gran parte a Juba, nella capitale. In attesa dell’evolversi
degli eventi, c’è stato un incontro ieri, e l’amministratore apostolico della diocesi
ha previsto che per qualche mese non ci sarà la possibilità di un ritorno, almeno
nelle città. Le operazioni militari infatti non sono concluse, né da una parte né
dall’altra.
D. - Le persone che lei ha assistito, che guarda ogni giorno negli
occhi come stanno, in che condizioni sono e quali sono le loro aspettative?
R.
- Le persone che ho preferito guardare sono i bambini piccoli. Non si rendono conto,
anche se sono già traumatizzati, loro danno una speranza. I giovani invece hanno perso
la speranza. Molti di loro vogliono lasciare il proprio Paese, perché hanno perso
la speranza in un futuro vivibile in tempi brevi per il Sud Sudan. Le persone di una
certa età e anche gli adulti e gli anziani guardano a tutto questo come qualcosa che
non ha senso. Bisogna tener presente che a Malakal in due mesi ci sono stati cinque
combattimenti nella città. Questo mette a durissima prova la speranza di chiunque.
Nonostante ciò, la gente tornerà quando si sarà stabilità, non adesso, ma quando ci
sarà un po' di stabilità, un accordo a livello politico, la gente tornerà a coltivare
e a cercare di sopravvivere nelle proprie zone di origine.