2014-02-26 18:38:35

Aids: 15 milioni di pazienti in terapia entro il 2015. La speranza di Onu e Caritas Internationalis


Come allargare il trattamento antiretrovirale al maggior numero di affetti da HIV-Aids è stato il principale tema di discussione della Conferenza svoltasi a Roma nei giorni scorsi co-sponsorizzata da Unaids (il programma delle Nazioni Unite) e Caritas Internationalis, la cui collaborazione nella lotta all’epidemia va avanti sin dal 1999, pur talvolta nella diversità di approccio, ad esempio nel campo della prevenzione. Nel mondo, alla fine del 2012, le persone sieropositive erano oltre 35 milioni, la maggior parte delle quali nel continente africano. Non a tutti è garantito l’accesso ai farmaci necessari, e uno degli obiettivi di Unaids è quello di mettere sotto terapia 15 milioni di persone entro il 2015. Francesca Sabatinelli ha intervistato mons. Robert Vitillo, consigliere speciale per l’Aids della Caritas Internationalis: RealAudioMP3

R. - Attualmente ci sono oltre 10 milioni di persone che sono sotto antiretrovirali, però adesso l’Oms ha ridefinito i criteri per il trattamento, e quindi è aumentato il numero di persone da mettere sotto cura. Dunque, seguendo le nuove linee guida dell’Oms, siamo ancora lontani dagli obiettivi.

D. - Secondo voi in quanto tempo sarà possibile comunque raggiungere l’obiettivo di consentire l’accesso agli antiretrovirali a tutti?

R. - Credo che abbiamo ancora la speranza di raggiungere per il 2015 i 15 milioni di persone, dipenderà ovviamente dalla collaborazione dei Paesi e soprattutto dall’organizzazione della Chiesa, perché la Chiesa, in molti Paesi, si fa carico del servizio sanitario. A questa conferenza hanno partecipato rappresentanti di Paesi dove la Chiesa si occupa, sempre dal punto di vista sanitario, del 50% della popolazione, dunque in questo caso siamo noi a dovere fare di più.

D. - In molti Paesi i progressi fatti nella cura dell’HIV-AIDS hanno fatto passi da gigante, molti altri invece l’accesso ai farmaci è completamente fermo, ne citiamo alcuni: Nigeria, Sud Sudan, Myanmar, Repubblica Centrafricana, Repubblica Democratica del Congo. Cosa si deve fare? Perché queste differenze?

R. - La Chiesa sta lavorando in questi Paesi. Ad esempio, la Repubblica Democratica del Congo è uno di quei luoghi in cui la Chiesa cattolica si occupa del 50% della popolazione, dunque la Chiesa cercherà di fare di più, nel senso di aprire al maggior numero di persone i trattamenti antiretrovirali, ma ha bisogno di finanziamenti, di fondi, per farlo. Abbiamo discusso di questo alla Conferenza, era presente anche il cardinale di Abuja, in Nigeria, c’erano rappresentanti dei governi di questi Paesi, e i rappresentanti delle Nazioni Unite hanno promesso di aiutarci, di sostenerci nel reperimento dei soldi per questi medicinali.

D. - Le difficoltà economiche sopraggiungono anche perché i Paesi donatori non rifinanziano il Fondo Globale Onu per la lotta all’Aids…

R. - Il Fondo Globale in realtà non ha eccessive mancanze di soldi, però ad esempio prevede di lasciare tutte le iniziative ai singoli governi, e molti di questi non assicurano i servizi, dunque è questo il problema. C’era alla riunione anche un rappresentante del Fondo Globale per ascoltare l’esperienza dalla base.

D. - Ci sono Paesi dai quali è difficile ancora avere le stime del contagio, perché c’è un forte problema culturale, un problema di negazione della malattia, ad esempio un Paese come il Sudan non fornisce i dati, come si fa quindi a raggiungere queste popolazioni e a superare la barriera culturale?

R. - E’ questo il motivo per il quale bisogna lavorare con le organizzazioni che sono attive alla base, la Chiesa può dare testimonianza di tutto questo, abbiamo inoltre in nostro possesso molti dati che sono stati presentati durante la Conferenza. Ci sono evidenze scientifiche che danno ragione alla Chiesa, però anche noi dobbiamo comunicare queste informazioni agli altri: al governo, alla comunità internazionale, alle agenzie specializzate delle Nazioni Unite, le persone che hanno i soldi devono conoscere meglio l’esperienza che è alla base.

D. - Si è parlato durante la Conferenza della necessità di una road map, sia per diminuire il contagio sia per raggiungere il massimo numero di persone con i trattamenti antiretrovirali. Questi due giorni a cosa hanno condotto?

R. - Prima di tutto è stato riconosciuto che il trattamento antiretrovirale va oltre il medicinale, significa trattare tutta la persona, con la propria dignità. La competenza e l’esperienza della Chiesa vanno proprio in questa direzione e questo lo devono riconoscere anche le Nazioni Unite. Altro punto: è necessaria la collaborazione nella ricerca per avere più dati, come ha detto lei, e comunicarli e, in ultimo, fare rete tra noi cattolici, perché ci sono organizzazioni cattoliche che non collaborano tra loro, dobbiamo lavorare di più insieme.







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