Gender. Lo psicologo: per insegnare a non discriminare si lede la psiche del minore
“Le componenti dell’identità sessuale”, “Bullismo omofobico: come riconoscerlo ed
intervenire”. Sono solo due dei temi trattati negli opuscoli sull’ideologia del gender,
preparati appositamente per le scuole, dall’asilo nido alla secondaria di secondo
grado, dall’Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale del governo e dall’Istituto
Beck. Diverse le voci di politici e psicologi che parlano di “proposte che disorientano
e confondono”. Maura Pellegrini Rhao ha raccolto il pareredi Marco
Scicchitano, psicologo e psicoterapeuta che si occupa di adolescenti e di problematiche
dello sviluppo:
R. – La cosa
che, secondo me, si perde di vista e che secondo me è un principio pedagogico fondamentale
è che in realtà, in questo modo, cercando di dare un’educazione che spinge a non considerare
le differenze che ci sono tra maschile e femminile, in realtà non si fa altro che
enfatizzare la possibilità che i ragazzi sviluppino un’identità più fragile, meno
sicura, meno aderente a quello che naturalmente si sentono di essere e questo poi
– l’insicurezza – viene a formare il terreno psicologico di base che porta al bullismo,
alla violenza. Io credo che sia un rischio, che per seguire un obiettivo giusto, che
è quello di aiutare i bambini a non discriminare, in realtà si realizzi proprio il
contrario, cioè che si elimini la possibilità nei bambini di formarsi un’identità
solida, formata, coerente con i processi di sviluppo che avvengono nel corso del tempo.
E questo, poi, diventa un problema.
D. – E’ giusto, secondo lei, parlare ai
bambini di cose come “cinque generi sessuali”?
R. – Mentre l’adulto ha un’identità
con la quale può confrontarsi, può recepire questa informazione, farla propria, confrontarla
come esperienza già vissuta, e quindi non è destabilizzante rispetto alla propria
identità di genere. Se io questa informazione la do a un bambino di due anni che sta
appena ora incominciando a comprendere cos’è un maschio e cos’è una femmina, è assolutamente
fuori da un approccio rispettoso dei processi di sviluppo progressivi del bambino:
affettivi, psicologici eccetera…
D. – Ma cosa si intende, di preciso, per omofobia?
Perché negli opuscoli leggiamo che “il grado di religiosità costituisce un fattore
importante nel delineare un ritratto di un individuo omofobo”…
R. – Credo che
sia un po’ ambiguo, anche nella sua struttura linguistica, perché in termini proprio
da manuale psicologico, la fobia si riferisce a qualcosa, nel mondo esterno,
che crea ansia, crea problemi, il decadimento della qualità; in quest’altro caso,
dell’omofobia, può descrivere un comportamento che è aggressivo verso un’altra persona,
quindi non si fa riferimento a un disagio della persona che eventualmente attuerebbe
questa omofobia, ma si fa riferimento all’aggressività in termini verbali o fisici
o di limitazione di libertà e della libera espressione dell’altro, o che comunque
tenti in qualche modo di prevaricarlo… Però, è molto ambiguo. Mi sembra che voglia
far passare il termine che sia una malattia – facendo riferimento a fobia –
quando in realtà sono convinzioni che possono poggiare anche su elementi diversi dal
disagio psichico. Mi sembra pericoloso, perché incominci a ledere anche la libera
educazione che un genitore può dare ai propri figli. Capisco l’obiettivo buono, ma
io ci vedo l’ingerenza di una forte ideologia.