Dopo le proteste, ancora tensioni sociali in Bosnia Erzegovina
Scende il livello della protesta in Bosnia, dopo tre giorni di violente manifestazioni
in diverse città contro la crisi economica, la corruzione, la povertà e la disoccupazione.
Domenica ci sono stati nuovi raduni, ma con minore partecipazione e senza incidenti,
mentre si registrano i primi segnali di dialogo. Ma la tensione resta elevata e spunta
persino l'ipotesi di nuovi rinforzi militari europei, in caso di un ritorno di fiamma
delle violenze di piazza. Qualcuno parla di primavera bosniaca. Fausta Speranza
ne ha parlato con Andrea Rossini, esperto dell’Osservatorio dei Balcani:
R. – Più che
di fronte ad una primavera, io penso che siamo di fronte alla manifestazione di una
crisi sistemica: la crisi del sistema politico della Bosnia-Erzegovina, così come
ci è stato consegnato 20 anni fa dagli Accordi di Dayton, che hanno posto fine alla
guerra degli anni Novanta. Si tratta di un grido disperato probabilmente della maggioranza
della popolazione, anche se in piazza c’erano soprattutto operai, disoccupati, giovani…
Chiedono una soluzione ad una situazione economica ormai intollerabile. In Bosnia-Erzegovina
ci sono punte di disoccupazione che per i giovani sfiorano il 60%. Purtroppo, però,
la politica è ancora ingabbiata nei recinti etnici che sono stati stabiliti a Dayton
ed è incapace di dare una risposta a queste domande della popolazione.
D. –
Si tratta di un territorio particolare: la protesta sociale accomuna tutti ma ci sono
differenziazioni tra le diverse aree?
R. – La Bosnia-Erzegovina è divisa
in due entità: la Repubblica Srpska, abitata in maggioranza da serbo-bosniaci; e la
Federazione di Bosnia-Erzegovina, abitata in maggioranza da bosniaco-musulmani e da
croato-bosniaci. Queste manifestazioni si sono sviluppate e hanno – come dire – espresso
anche le forme più radicali nella Federazione, in particolare nei centri urbani maggiori,
nei centri industriali o ex industriali, come Tuzla, nel nord-ovest del Paese, poi
Zenica, poi Sarajevo, poi Mostar, Bihac. Però l’aspetto interessante è che non sono
state manifestazioni semplicemente confinate ad un gruppo etnico o con caratterizzazioni
di tipo etnico, perché anche in Repubblica Srpska, anche se in maniera minore, si
è manifestato in solidarietà con i dimostranti della Federazione di Bosnia-Erzegovina.
D.
– Sembra che il fallimento o il rischio di fallimento di molte aziende sia dovuto
a privatizzazioni selvagge. E’ così?
R. – C’è stato un processo di privatizzazione
dopo la guerra che sicuramente è stato condotto in maniera poco trasparente e con
fenomeni corruttivi molto estesi, almeno questo secondo le Organizzazioni non governative
che fanno monitoraggio sul fenomeno della corruzione. L’esempio di Tuzla, che è stato
il luogo che ha dato origine alle proteste, da questo punto di vista è illuminante:
gli operai che hanno iniziato le manifestazioni, mercoledì scorso, protestavano contro
la chiusura di cinque grandi fabbriche che erano appena state vendute ai privati:
appena privatizzate, sono state poco dopo chiuse. Per cui si tratta di un processo
che non è stato condotto a regola d’arte e non nell’interesse della popolazione e
dei lavoratori: questo sicuramente!
D. – E’ vero che a quasi 20 anni dalla
conclusione di quel drammatico conflitto non si è raggiunto un livello di sviluppo
neanche simile a quello che c’era prima della guerra?
R. – E’ vero. C’è stato
un crollo rispetto a quella che era la situazione degli anni Ottanta. La transizione
economica verso il mercato in Bosnia-Erzegovina dal sistema pianificato, - comunque
con tutta la caratterizzazione ovviamente jugoslava, perché il sistema jugoslavo non
era quello sovietico - è passata attraverso un periodo di quattro anni di guerra.
Per cui gli impianti industriali sono stati abbandonati e in parte anche danneggiati.
La situazione più difficile era legata proprio al gigantismo di questi impianti, che
hanno fatto fatica a riconvertirsi in una economia di mercato.