Giorno del ricordo per le vittime delle foibe. Mons. Crepaldi: "non alimentare odii"
“Per troppo tempo si è cercato di far dimenticare e questo non deve più avvenire''.
Il presidente del Senato Piero Grasso, davanti alla foiba di Basovizza a Trieste,
ha parlato del dramma che vissero migliaia di istriani e dalmati negli anni a cavallo
della fine della seconda guerra mondiale. Significativo anche l'intervento dell'arcivescovo
di Trieste, mons. Crepaldi. Lunedì scorso infatti, si è celebrato il Giorno del ricordo
per le vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. Alessandro Guarasci
Solo
da qualche anno a questa parte gli italiani cominciano a percepire il dramma delle
foibe. La legge che istituisce la Giornata del Ricordo venne approvata nel 2004, in
memoria di quei 10 mila italiani vennero trucidati dalle milizie di Tito, perché non
croati o perché considerati nemici per vari motivi. Non meno di 350 mila, poi, dovettero
lasciare le loro case. Il presidente del Senato Piero Grasso, di fronte alla foiba
di Basovizza, vicino a Trieste, ha detto che bisogna “stare uniti nella difesa dei
nostri valori”, bisogna “unire non dividere''. A Basovizza l'arcivescovo di Trieste
mons. Giampaolo Crepaldi ha detto che “Conservare e rinnovare la memoria non significa
continuare ad alimentare odii e recriminazioni, che ormai sarebbero ingiustificati
sul piano morale e anche sul piano storico. Conservare e rinnovare la memoria - ha
detto il presule - significa piuttosto andare, con sincerità e chiarezza, alla ricerca
delle ragioni - ideologiche, culturali e politiche - che hanno alimentato la violenza,
la sopraffazione, la morte di tanti fratelli e sorelle. La ricerca e il dibattito
politico e storiografico sull’entità e le cause degli infoibamenti, cioè dell’uccisione
di migliaia di uomini e donne, tra cui anche numerosi preti cattolici, ad opera prevalentemente
di partigiani titini e di esponenti comunisti, sono tuttora molto vivi sia nelle zone
di confine italiane coinvolte nel fenomeno, sia nei confinanti stati croato e sloveno.
Quando in Europa si è rispettato la persona umana, considerata nella sua dimensione
integrale, si sono scritte pagine gloriose di solidarietà e di pace; quando in Europa
si è disprezzato la persona umana si è stati travolti dall’odio della guerra e dalla
decadenza morale" ha affermato mons. Crepaldi. E nella giornata di lunedì non sono
mancati atti vandalici. È successo a Venezia, in piazzale Marghera, dove un monumento
è stato sporcato con vernice rossa e disegni di falce e martello, e anche a Roma,
vicino alla stazione del metro Laurentina, dove è stata usata della vernice bianca.
Atti duramente condannati dal governo.
Dunque, solo dal 2004, in memoria delle
vittime della foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale,
l’Italia istituisce ogni 10 febbraio la solennità nazionale e civile del "Giorno del
Ricordo". La riflessione di Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione,
autrice del libro “Foibe ed Esodo. L’Italia negata. La tragedia giuliano-dalmata a
dieci anni dall’istituzione del 'Giorno del Ricordo'”edito da Pagine, membro
dell'"Associazione Nazionale Dalmata” e del “Comitato 10 febbraio”:
R. – Sono esule
di terza generazione, nipote di Manlio Cace, un patriota che visse primo e secondo
esodo. Mio nonno ha raccolto diverso materiale fotografico dei campi di concentramento
titini, dove erano detenuti tantissimi italiani.
D. – Ci aiuta a ricostruire,
anche attraverso la testimonianza di suo nonno, l’orrore di quegli anni?
R.
– Io faccio sempre un paragone: è come se nel Lazio di colpo si dicesse a tutti: “Guardate,
voi d’ora in poi siete tedeschi! Dovete parlare tedesco. Cambiamo le scritte di tutti
i negozi. Se voi non fate questo o verrete uccisi oppure vivrete nel terrore”. Questo
è avvenuto in una regione che, a tutti gli effetti, era una regione d’Italia. Le fasi
degli “infoibamenti” sono due: ’43 e ’45. Quelli del ’43 ancora con la guerra in corso
e quelli del ’45 a guerra finita. In quest’ultimo caso si parla, quindi, di crimini
contro l’umanità e non crimini di guerra. Tutte le persone rappresentative, tutti
coloro che rappresentavano lo Stato italiano - sindaci, dipendenti comunali, parroci,
intellettuali, medici e quant’altro - erano i primi ad essere ricercati e perseguitati,
perché svolgevano un ruolo di collante della collettività. Senza processi o con processi
farsa del cosiddetto Tribunale del Popolo, venivano presi, torturati molto spesso
e poi gettati in queste cavità carsiche, caverne verticali, precipizi - le foibe -
affinché sparisse proprio tutto di loro. Venivano distrutti anche i loro documenti.
D.
– E colpisce anche il sadismo con cui venivano gettati nelle foibe...
R. –
Solitamente, per risparmiare le pallottole, venivano legati a gruppi di dieci con
fili di ferro, gli uni agli altri, sempre nudi, perché gli si toglieva tutto - gli
abiti e la dignità – e si sparava al primo: questo col peso morto praticamente trascinava
nella foiba le persone vive, che magari morivano anche dopo due o tre giorni. Nel
libro ho anche pubblicato l’unico documento di una perizia medico-legale, condotta
su una serie di corpi recuperati dalle foibe. Si capisce che queste persone sono morte
anche dopo due o tre giorni con le ossa rotte, nudi, di dolore, dentro questi abissi.
D.
– Anche in ragione della profondità di queste cavità, è stato difficile poi quantificare
il numero delle vittime...
R. – Assolutamente. Consideriamo intanto che un’analisi
è stata fatta solo sulle foibe sul territorio italiano, che sono comunque una piccola
percentuale rispetto a tutte quelle che sono disseminate sul territorio croato e sloveno
e sulle quali ancora non è stato condotto – e penso mai lo sarà – alcun tipo di indagine.
D. – Quest’anno ricorrono i 10 anni dalla istituzione, nel 2004, del giorno
del ricordo...
R. – Certamente l’istituzionalizzazione di un giorno per ricordare
queste vittime ha squarciato tanti veli. E’ chiaro, però, che in 10 anni non si può
compensare il silenzio di 60 anni. E poi recentemente si avverte una minore attenzione.
Basti pensare anche ai tagli del sindaco Marino a Roma ai “viaggi del ricordo” alla
foiba di Basovizza, che è stato un segno, secondo me, molto negativo, considerando
che ci troviamo nell’anno di celebrazione del decennale della legge e che siamo la
capitale d’Italia e quindi abbiamo anche un dovere simbolico, di traino. Il rischio
è quello di passare dal negazionismo al riduzionismo del fenomeno.
D. – 60
anni di silenzio, perché?
R. – Perché noi abbiamo perso la guerra, la situazione
era difficile e sicuramente la Jugoslavia di Tito era una realtà strategica, che faceva
da cuscinetto tra Occidente ed Urss. Diciamo quindi che si è sacrificata, per gli
interessi internazionali, la dignità dei nostri morti. C’era poi anche il discorso
ideologico, comunque, del partito comunista, che non ha mai voluto accettare questi
eccidi, perché la liberazione non poteva portare ad aberrazioni. E invece i partigiani
comunisti di Tito hanno compiuto l’eccidio più grande della storia della nazione,
dopo l’unità d’Italia.