2014-02-08 13:27:10

Calma ma grande tensione in Bosnia Erzegovina, il giorno dopo le proteste contro la disoccupazione


Calma ricca di tensione in Bosnia Erzegovina dopo la giornata di forti proteste e tumulti contro la disoccupazione, in particolare nelle città di Tuzla, Zenica, Sarajevo e Mostar, che hanno provocato 200 feriti e distrutto documentazione nei palazzi del potere. Decine gli arresti fra i dimostranti. Nessuna autorità ha ancora provato a fare le stime dei danni provocati. Pochi anche i leader politici che hanno commentato finora gli eventi. Chi lo ha fatto ha affermato che le proteste possono essere comprese, ma che “nulla può giustificare violenze e vandalismi”. Francesca Sabatinelli ha raggiunto telefonicamente a Sarajevo, Azra Ibrahimovic, coordinatrice per la ong Cesvi della "Casa del sorriso" di Srebrenica:RealAudioMP3

R. – Quello che sta accadendo - soprattutto nelle grandi città come Sarajevo, Tuzla, Mostar, Bihac, Zenica - sono grandi proteste organizzate dalla gente che ormai non ce la fa più a vivere: sono le condizioni socio-economiche che hanno spinta a questa mossa disperata di uscire in strada e di protestare contro il malessere che molti cittadini della Bosnia-Erzegovina – purtroppo! - stanno vivendo in questo momento.

D. – Sappiamo che il popolo sta manifestando violentemente contro un tasso di disoccupazione altissimo; altrettanto alto è il livello di povertà. Le voci che ci giungono da lì - le voci degli intellettuali e dei leader della protesta - parlano di una “primavera bosniaca”. Questo è quello che le persone stanno pensando?

R. – Gran parte dei cittadini pensono a questo. Anzi gli intellettuali – tra virgolette – sperano che sia la “primavera bosniaca, perché ormai siamo arrivati ad un momento critico, dove la situazione economica non sta facendo alcun progresso nel Paese, anzi sta regredendo sempre di più, causando grossi disagi sociali. La maggior parte della gente che uscita in strada è rappresentata proprio dai lavoratori. I diritti qui sono negati, i diritti di base sono negati: il diritto al lavoro, il diritto ad avere uno stipendio, il diritto ad una assicurazione sanitaria, il diritto ad una pensione. Quindi si tratta proprio di quei diritti che garantiscono l’esistenza di una persona e di una famiglia. Ecco, cosa prevalentemente ha spinto la gente ad uscire in strada.

D. – Non si può non ricordare che sono 20 anni dalla sanguinosa guerra che ha devastato il tuo Paese: chi combatteva uno contro l’altro, si ritrova oggi unito perché queste proteste sono di tutti i bosniaci?

R. – E’ il colore che è uguale per tutti i bosniaci: il colore dei diritti che non sono rispettati; il colore della disoccupazione… Nella stessa situazione si trova sia il bosniaco musulmano che il croato, che il serbo: sono i problemi che ci hanno riuniti per le strade di Sarajevo! Durante le proteste ho visto la gente che portava tre bandiere insieme: la bandiera serba, la bandiera croata e la bandiera bosniaca attaccate una all’altra, con la scritta: “In questo siamo tutti uguali!”. Infatti le proteste sono cominciate anche a Banja Luka, a Prijedor… Quindi un po’ in tutta la Bosnia-Erzegovina.

D. – Le autorità politiche stanno cercando di parlare al popolo?

R. – Ormai fa poco effetto! Quello che la gente chiede sono le dimissioni di tutti i governi cantonali. Quindi una delle richieste – oltre al rispetto dei diritti umani di base – è anche quella della rassegnazione delle dimissioni di tutti i governi, partendo dal livello federale fino al livello cantonale. Alcuni primi ministri dei governi cantonali hanno già annunciato le loro dimissioni, ma ancora si aspettano le reazioni a livello federale.

Ma quanto è corretto parlare di primavera bosniaca. Fausta Speranza lo ha chiesto a Andrea Rossini, esperto dell’Osservatorio dei Balcani: RealAudioMP3

R. – Più che di fronte ad una primavera, io penso che siamo di fronte alla manifestazione di una crisi sistemica: la crisi del sistema politico della Bosnia-Erzegovina, così come ci è stato consegnato 20 anni fa dagli Accordi di Dayton, che hanno posto fine alla guerra degli anni Novanta. Si tratta di un grido disperato probabilmente della maggioranza della popolazione, anche se in piazza c’erano soprattutto operai, disoccupati, giovani… Chiedono una soluzione ad una situazione economica ormai intollerabile. In Bosnia-Erzegovina ci sono punte di disoccupazione che per i giovani sfiorano il 60%. Purtroppo, però, la politica è ancora ingabbiata nei recinti etnici che sono stati stabiliti a Dayton ed è incapace di dare una risposta a queste domande della popolazione.

D. – Si tratta di un territorio particolare: la protesta sociale accomuna tutti ma ci sono differenziazioni tra le diverse aree?

R. – La Bosnia-Erzegovina è divisa in due entità: la Repubblica Srpska, abitata in maggioranza da serbo-bosniaci; e la Federazione di Bosnia-Erzegovina, abitata in maggioranza da bosniaco-musulmani e da croato-bosniaci. Queste manifestazioni si sono sviluppate e hanno – come dire – espresso anche le forme più radicali nella Federazione, in particolare nei centri urbani maggiori, nei centri industriali o ex industriali, come Tuzla, nel nord-ovest del Paese, poi Zenica, poi Sarajevo, poi Mostar, Bihac. Però l’aspetto interessante è che non sono state manifestazioni semplicemente confinate ad un gruppo etnico o con caratterizzazioni di tipo etnico, perché anche in Repubblica Srpska, anche se in maniera minore, si è manifestato in solidarietà con i dimostranti della Federazione di Bosnia-Erzegovina.

D. – Sembra che il fallimento o il rischio di fallimento di molte aziende sia dovuto a privatizzazioni selvagge. E’ così?

R. – C’è stato un processo di privatizzazione dopo la guerra che sicuramente è stato condotto in maniera poco trasparente e con fenomeni corruttivi molto estesi, almeno questo secondo le Organizzazioni non governative che fanno monitoraggio sul fenomeno della corruzione. L’esempio di Tuzla, che è stato il luogo che ha dato origine alle proteste, da questo punto di vista è illuminante: gli operai che hanno iniziato le manifestazioni, mercoledì scorso, protestavano contro la chiusura di cinque grandi fabbriche che erano appena state vendute ai privati: appena privatizzate, sono state poco dopo chiuse. Per cui si tratta di un processo che non è stato condotto a regola d’arte e non nell’interesse della popolazione e dei lavoratori: questo sicuramente!

D. – E’ vero che a quasi 20 anni dalla conclusione di quel drammatico conflitto non si è raggiunto un livello di sviluppo neanche simile a quello che c’era prima della guerra?

R. – E’ vero. C’è stato un crollo rispetto a quella che era la situazione degli anni Ottanta. La transizione economica verso il mercato in Bosnia-Erzegovina dal sistema pianificato, - comunque con tutta la caratterizzazione ovviamente jugoslava, perché il sistema jugoslavo non era quello sovietico - è passata attraverso un periodo di quattro anni di guerra. Per cui gli impianti industriali sono stati abbandonati e in parte anche danneggiati. La situazione più difficile era legata proprio al gigantismo di questi impianti, che hanno fatto fatica a riconvertirsi in una economia di mercato.







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