Sud Sudan. Msf mette in salvo i pazienti dell'ospedale di Leer: "270 mila senza cure"
Nello Stato sudsudanese di Unity, “più di 270 mila persone non hanno accesso alle
cure mediche”, a causa del deteriorarsi delle condizioni di sicurezza a Leer, il cui
ospedale fino a pochi giorni fa è stato l’unico pienamente funzionante nella zona.
A denunciarlo è Medici Senza Frontiere (Msf), operativo nell’area da 25 anni.Nelle
ultime ore, l'Onu ha lanciato un appello a reperire 1,27 miliardi di dollari per coprire
le proprie operazioni umanitarie e quelle delle Ong presenti in Sud Sudan.Da
metà dicembre, i combattimenti tra le truppe governative del presidente Salva Kiir
e i ribelli dell’ex vicepresidente, Riek Machar, in tutto il Paese hanno già causato
oltre 700 mila sfollati interni e 112 mila rifugiati negli Stati limitrofi. Secondo
osservatori internazionali, i morti potrebbero essere anche 10 mila. A fare un quadro
della situazione a Leer è Stefano Zannini, fino allo scorso anno capo missione
Msf in Sud Sudan. L'intervista è di Giada Aquilino:
R. – A Leer,
noi di Medici Senza Frontiere avevamo un ospedale da oltre 20 anni. La città era controllata
dalle forze ribelli, l’esercito governativo ha poi sferrato un attacco per riprendere
il controllo e la poca popolazione rimasta - tra cui anche il nostro personale medico-sanitario
- ha deciso di abbandonare la città per non correre ulteriori rischi. Nel nostro caso,
questo ha significato che i pazienti più gravi sono stati trasportati a spalla nella
boscaglia, dove si trovano tutt’ora in cura, con il poco materiale che siamo riusciti
ad evacuare.
D. – I servizi sanitari sono quindi sospesi al momento? Qual è
la situazione dell’accesso alle cure in particolare?
R. – A Leer, la situazione
dell’accesso alle cure è inesistente, perché non ci sono altre strutture mediche che
funzionano. E' anche vero che non ci sono persone, al di fuori dei militari, perché
i civili sono tutti nella boscaglia. Nel Paese, invece, la situazione resta estremamente
complessa, i bisogni sono enormi. Circa un milione di persone ha abbandonato i propri
villaggi e le proprie case e il numero di organizzazioni presenti sul territorio è
estremamente limitato.
D. – Dal punto di vista sanitario, le emergenze più
critiche quali sono?
R. – La dissenteria e la malaria sono le due patologie
principali che stiamo osservando. In alcuni campi, purtroppo, si registrano un incremento
del tasso di mortalità e addirittura il propagarsi del morbillo. Da un punto di vista
sanitario più generale, invece, l’accesso all’acqua potabile in quantità adeguata
al momento è l’ostacolo più importante.
D. – Dalle notizie che avete, perché
si combatte ancora da metà dicembre ad oggi?
R. – Si combatte per diverse ragioni.
Per una questione di potere – le elezioni erano attese per il 2015 – e in questo quadro
si inseriscono inoltre fattori etnici che storicamente rappresentano un problema nel
Paese. La cosa più scoraggiante è che, nonostante sia stato raggiunto un accordo per
un cessate-il-fuoco due settimane fa, i combattimenti continuano, le violenze continuano
e decine di persone continuano a morire.
R. – Al di là della contrapposizione
tra etnie Dinka e Nuer, lo stato di Unity, dove c’è ancora lo staff di Medici Senza
Frontiere, che zona è?
D. – E’ particolarmente turbolenta, perché è la zona
principale dei pozzi petroliferi: sostanzialmente fornisce sostentamento all’intero
Paese. Un dato su tutti: il 98% delle risorse dello Stato del Sudan del Sud proviene
dall’estrazione petrolifera.
D. – L’Onu ha lanciato un appello proprio nelle
ultime ore per reperire altri fondi e coprire così le azioni umanitarie in corso.
L’appello di Medici Senza Frontiere qual è?
R. - L’appello di Medici Senza
Frontiere è rivolto sostanzialmente a due categorie: la prima ai mezzi di informazione
affinché se ne parli, affinché si racconti e si dia visibilità a questo dramma in
corso. Poi un appello va, ovviamente, a quelli che sono già nostri sostenitori e a
quelli che non lo sono per contribuire a portare in Sud Sudan ancora più aiuti, ancora
più medicinali, ancora più personale medico. Nell’ultimo mese e mezzo,l abbiamo fatto
arrivare nel Paese oltre 180 tonnellate di materiale logistico e materiale medico
e sono presenti sul territorio oltre tre mila operatori che lavorano instancabilmente
ogni giorno.
D. – Eppure, cosa succede quando poi strutture come quella di
Leer rimangono di fatto chiuse?
R. – Quello che succede nel peggiore dei casi
è che vengano saccheggiate, distrutte e date alle fiamme da attori armati presenti
sul territorio. Questo comporta due problemi. Prima di tutto, vengono perse possibilità
di garantire cure immediate alla popolazione locale. Secondo, è che – anche qualora
riuscissimo a ritornare, com’è successo a Bentiu qualche settimana fa – dovremmo ricominciare
da zero e ricostruire la struttura o, nel migliore dei casi, ripulirla e per questo
passeranno giorni.