Kabul: 21 morti in un attentato talebano, condanna di Ban Ki-moon
Dura condanna della Comunità internazionale per l’attentato che, venerdì, a Kabul,
ha ucciso 21 persone, tra cui 4 membri delle Nazioni Unite. Morto anche un rappresentante
del Fondo Monetario Internazionale. Il servizio di Massimiliano Menichetti:
Il segretario
generale dell’Onu Ban Ki-moon ha condannato "nei termini più forti" l’ennesimo attentato
che ha colpito un ristorante libanese a Kabul, molto frequentato da stranieri che
lavorano nelle vicine ambasciate. Morte 21 persone: 13 cittadini stranieri e 8 afghani.
Cinque i feriti. Quattro delle vittime sono membri delle Nazioni Unite, a perdere
la vita anche un rappresentante del Fondo Monetario Internazionale. “Una notizia tragica”,
è stato il commento del direttore generale dell’Fmi, Christine Lagarde, mentre l'Alto
rappresentante Ue, Catherine Ashton, in un comunicato, ha condannando "fermamente"
quella che ha descritto come "una "violenza spaventosa e ingiustificabile". Confermato
che tra le vittime ci sono due statunitensi, un poliziotto danese dell'Eupol e un
cittadino britannico. L’attacco è stato rivendicato dai talebani. Un commando è entrato
in azione verso le 19.30 ora di Kabul, un primo kamikaze si è fatto esplodere davanti
all'ingresso del ristorante, mentre altri due hanno aperto il fuoco riuscendo ad introdursi
all'interno del locale. Il comandante della polizia locale, il generale Zahir, ha
detto che lo scontro a fuoco che ne è seguito “è durato almeno due ore”, indicando
che fra le vittime ci sono anche il proprietario, il manager e una guardia privata
del ristorante. L’attentato - secondo un comunicato dei talebani - sarebbe stato messo
in atto per "rappresaglia", dopo il raid aereo Usa di martedì notte nella provincia
di Parwan, che secondo il presidente Hamid Karzai ha ucciso sette bambini e una donna.
Entro
il 2015 la Comunità internazionale lascerà l’Afghanistan, pur mantenendo un sostegno
economico. Al microfono di Massimiliano Menichetti, il prof.Marco
Lombardi, responsabile dei Progetti educativi in Afghanistan dell’Università Cattolica
del Sacro Cuore di Milano:
R. - Entra in
gioco un contenzioso importante: quello della morte dei civili negli attacchi delle
forze alleate. Non è stato un attentato mirato se non nei termini di cercare più morti
possibili nella parte occidentale, come risposta all’attacco alla provincia di Parwan,
tre giorni fa. Sicuramente il tema, dal mio punto di vista, resta quello che in questo
momento è al centro di ogni accordo tra il governo e gli americani: cioè ridurre le
perdite di civili durante gli interventi delle forze di coalizione. A questo si accompagna
l’altra unica possibilità di intervento che chi rimane in Afghanistan avrà, che sarà
quella della progressiva riqualificazione sia delle forze di sicurezza locali, sia
delle altre istituzioni locali, quindi il piano della formazione e dell’educazione.
Sarà l’unica possibilità di continuare a mantenere ad orientare l’Afghanistan verso
una strada che deve innanzitutto cercare come propria e non più essere imposta.
D.
– Si ribadisce da più parti che proprio la formazione è fondamentale per sconfiggere
l’ignoranza, veicolo per quanto riguarda le stragi e le violenze…
R. – Però
non facciamoci illusioni. Formare, se significa anche educare, vuol dire tempi lunghi;
formare, se significa dare competenze specifiche – quello che noi chiamiamo training
– significa tempi brevi. Questi percorsi devono esser seguiti entrambi, consapevoli
però del tempo con il quale si raggiungono i risultati. Quindi, formare significa
dare training in questo momento per garantire sicurezza e dare training
alle istituzioni che devono imparare a governare il Paese in una maniera accettabile
anche dalla Comunità internazionale; dall’altra parte, dare formazione - in termini
di educazione - per trovare un momento di relazione più profondo capace di costruire
un Paese che sia sempre più dentro e non fuori dal comune sentire che piano piano
il mondo della globalizzazione sta portando a condividere.
D. – Da una parte
Karzai cerca, anche con accordi in Pakistan, di contenere i talebani; dall’altra il
movimento che vuole includerli in un processo di formazione politica. Cosa ne pensa?
R.
– Non possiamo pensare di costruire istituzioni che siano immediatamente, istituzionalmente
conflittuali verso un’altra parte del Paese. Quindi, un accordo io trovo che sia fondamentale
e necessario. Quello che noi possiamo fare come “internazionali” è cercare di promuovere
un accordo tra tutti gli attori.
D. – Si parla spesso di ricostruzione dell’Afghanistan.
Lei come vede il percorso del Paese?
R. – La ricostruzione deve mirare al benessere,
garantire un progresso che si fondi non sulla corruzione – cosa estremamente difficile
in questo momento – andare verso progetti e portare risultati a tutti. Serve sempre
un’attività di ricostruzione concertate a livello locale, mai imposta: le priorità
sono definite insieme alla Loya Jirga locale, alla Shura locale cioè a quei governi
localmente legittimati, che rappresentando la popolazione e ne portano le istanze.
D.
– Intorno ai confini dell’Afghanistan ci sono situazioni molto complesse: la Siria,
l’Iraq, il Pakistan…
R. – Da qui la necessità di avere un Afghanistan stabile
ma con forti istituzioni autonome, interne riconosciute e legittimate dalla popolazione.
Potenzialmente è una grande potenza, insieme all’Iran che può essere centrale nei
futuri giochi, ma parlo da qui ai 50 anni dell’area se le cose vanno in un certo modo…