Ergastolo ostativo. Don Pozza: si arrivi a offrire ai rinchiusi a vita una data di
fine pena
La situazione delle carceri in Italia ha bisogno di una riforma complessiva che garantisca
l’esercizio della giustizia, ma anche il rispetto della dignità dei detenuti. Su sollecitazioni
più volte rinnovate anche dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, la
Commissione giustizia ha avviato l'esame di un disegno di legge sulla tutela dei diritti
fondamentali dei detenuti e la riduzione controllata della popolazione carceraria,
mentre in Senato è approdato il disegno di legge in materia di pene detentive non
carcerarie e messa alla prova, già approvato dalla Camera dopo un lungo confronto.
Tra le proposte presentate da tempo all’attenzione del parlamento, anche quella che
prevede l’abolizione dell’ergastolo ostativo, una forma di ergastolo che non contempla
alcun termine alla pena detentiva, e neppure alcuna forma di beneficio o di permesso
premio. Nella Casa di reclusione di Padova scontano l’ergastolo ostativo una trentina
di detenuti. Ma con quali sentimenti questi uomini affrontano una pena senza fine?
Adriana Masotti lo ha chiesto al cappellano dell’istituto, don Marco Pozza:
R.
– Con quali sentimenti è una cosa assai difficile poterlo dire, perché penso che solo
chi lo sperimenta sulla propria pelle possa raccontare che cosa significhi svegliarsi
ogni mattina e tutte le mattine per una vita intera, sapendo che non si potrai mai
più uscire dalla realtà del carcere. Quindi i sentimenti che albergano dentro queste
persone sono da una parte di una solitudine estrema, ma dall’altra parte c’è anche
una sete di riscatto e una voglia di lottare per cercare di intravedere se non altro
un barlume di speranza, un barlume di luce in fondo a questo tunnel, a questo “binario
morto”, come lo chiamano loro.
D. – Il carcere, infatti, dovrebbe essere uno
strumento di punizione, sì, ma anche di rieducazione: questo vale, in questo momento,
anche per gli ergastolani? Che senso ha, per loro, parlare di percorso di cambiamento,
di conversione?
R. – Certamente noi abbiamo, come racconta Roberto Benigni,
la Costituzione più bella del mondo, ma poi questa Costituzione non sempre viene applicata.
Per quanto riguarda gli ergastolani, la sfida è doppiamente ardua, perché anche qualora
riuscissimo – come nel carcere di Padova tantissimi uomini e donne di buona volontà
stanno cercando di fare – a intraprendere un percorso di rieducazione nei confronti
di queste persone, per lo meno servirebbe loro poter sperare in una chance,
attraverso la quale poter dimostrare che questa rieducazione è avvenuta.
D.
– Che significato assume per un ergastolano la parola "speranza"?
R. – E’ il
paradosso più grande. E' il paradosso che a volte diventa anche un contrappasso, perché
raccontare la speranza e tenere accesa la speranza sapendo che per te non c’è speranza,
non c’è speranza di futuro, non c’è speranza di riallacciare gli affetti di casa,
non c’è speranza di tornare ad essere il padre che eri prima, non c’è la speranza
di poter mostrare al mondo che tu non sei e non sarai e non sei stato il tuo errore,
diventa da una parte una ghigliottina che ogni mattina hai lì, sul collo. Dall’altra
parte diventa anche, però, da un punto di vista cristiano, forse l’ultima e l’unica
grammatica che questo popolo ha tra le mani. Quando si parla della speranza, con i
miei uomini, mi viene sempre in mente quella bellissima sfaccettatura della speranza
che Benedetto XVI racconta appunto nell’Enciclica Spe salvi, quando lui dice
che sperare nel futuro non significa solo attendere un domani, che arrivi qualcosa
di bello, ma che già attendendo, il tuo presente incomincia a cambiare.
D.
– Le è mai capitato di vedere un ergastolano morire in cella?
R. – Purtroppo
sì. Il dramma dei suicidi all’interno delle carceri è una delle piaghe più grandi.
D.
– A parte i suicidi, io proprio intendevo dire qualcuno che muore di vecchiaia, in
carcere?
R. – Bè, certamente. Anche poco tempo fa, due tre mesi fa, siamo riusciti
se non altro, attraverso le forme lecite, a far passare a casa gli ultimi giorni di
vita a una persona anziana che aveva sulle spalle decenni e decenni di carcere duro.
Questa è l’unica speranza che loro hanno di uscire: arrivare alla fine della vita
e passare le ultime ore tra le mura familiari, qualora ce l’abbiano ancora…
D.
– In che modo lei, come sacerdote, cerca di aiutare i condannati all’ergastolo nella
quotidianità?
R. – Certamente, io come sacerdote ho tra le mani un’arma che
non pensavo assolutamente fosse di una potenza così imbarazzante, che è la Parola
di Dio. In questo ultimo anno, noi sacerdoti che lavoriamo nelle carceri abbiamo un
alleato ed è la persona di Papa Francesco: un uomo che dall’alto della sua autorevolezza
non manca occasione di citare la figura del detenuto nei suoi discorsi. Quel giorno
che il Papa a noi cappellani delle carceri ha affidato quella bellissima frase: “Dite
ai vostri parrocchiani che nessuna cella è così isolata da impedire a Dio di andarli
a trovare”, questo per noi è stata una ventata d’ossigeno. Mi piacerebbe raccontare
che impennata c’è stata anche a livello di confessioni, dopo l’elezione di Papa Francesco…
un Papa che a questa gente dice: “Dio non si stanca di perdonare: siete voi, siamo
noi che ci vergogniamo di chiedergli scusa”.
D. – Che cosa potrebbe aiutare
gli ergastolani a sentirsi ancora vivi?
R. – Una data di uscita. L’aiuto più
grande sarebbe quello di poter vedere – magari anche a distanza di decenni – che lì
in fondo c’è una data che si mette nel calendario.