Egitto blindato per il referendum sulla nuova Costituzione. Bomba al Cairo: nessun
ferito
53 milioni di Egiziani sono chiamati alle urne oggi per esprimersi sulla nuova Costituzione,
Manifestazioni di protesta che incitano al boicottaggio, indette dai sostenitori del
deposto presidente Morsi, si sono tenute in tutto il Paese. Le operazioni di voto
saranno monitorate da 17mila osservatori. A garantire la trasparenza del voto contribuiranno
anche 62 ong locali e sei straniere (due arabe, una tedesca, una sudafricana e due
Usa). Una bomba artigianale è stata fatta esplodere questa mattina davanti a un tribunale
del Cairo: l'attentato non ha provocato né vittime, né feriti. Massimiliano Menichetti:
Maggiori poteri
ai militari, la Sharia islamica come fonte principale di legislazione, parità tra
uomo e donna e il divieto di costituire partiti politici basalti sulla religione.
Sono alcuni dei punti principali della nuova Costituzione al vaglio, oggi e domani,
degli egiziani, chiamati al referendum per esprimersi sulle modifiche apportate alla
Carta fondamentale approvata nel 2012 sotto la presidenza di Mohammed Morsi e sospesa
dopo la sua deposizione il 3 luglio scorso. Di “Stato moderno e democratico” parla
adesso il preambolo all’articolo due della Carta, tutt’altro che accettata dai Fratelli
Musulmani e sostenitori del deposto presidnete Morsi, che hanno indetto manifestazioni
di protesta incitando al boicottaggio. Il 3 dicembre scorso il testo è stato sottoposto
per l'approvazione finale al presidente ad interim Adly Mansour dalla commissione
di 50 membri presieduta dall'ex segretario generale della Lega Araba Amr Moussa che
l'ha elaborata. Ridimensionato il ruolo dell’università di al-Azhar che torna a non
essere più tenuta a esprimere un parere sulla conformità delle leggi alla sharia.
Per la componente cristiana della società egiziana la Costituzione “garantisce” in
sostanza “la libertà di culto”. Centrale anche il divieto di partiti politici basati
sulla religione, che colpisce soprattutto il Partito di Libertà e Giustizia dei Fratelli
Musulmani, oltre a quello salafita Nour. Massime le misure di sicurezza approntate
per il referendum che coinvolge oltre 30mila seggi: più di 160mila militari e 4.500
mezzi dell'esercito sono stati dispiegati per evitare episodi di violenza. I soldati
saranno assistiti anche da 220mila agenti di polizia più una forza di intervento rapido
composta da 200 squadre anti-sommossa. In questo scenario la Procura generale egiziana
ha rinviato a giudizio 1.200 sostenitori del presidente Morsi, in relazione all'assalto
a due caserme della polizia a Minya, governatorato a sud del Cairo.
Sull'esito
del referendum abbiamo raccolto il commento di Pietro Batacchi, direttore della
Rivista italiana Difesa:
R. - La previsione,
che non hanno mancato di sottolineare diversi analisti, è che il “sì” passi anche
come una larghissima maggioranza. L’Egitto sta tornando a quello che era prima, ovvero
un regime dove il potere principale in termini politici - soprattutto per ciò che
riguarda le questioni politiche di sicurezza e di difesa - sono i militari. Del resto
la stessa Costituzione, sottoposta a referendum, è molto chiara, laddove afferma che
per i prossimi otto anni il ministro della Difesa comunque sarà nominato dalle autorità
militari; il budget dei militari stessi sarà posto fuori dal controllo delle future
autorità civili; e, in generale, la nuova Costituzione riporta in auge quello che
era sempre stato il potere dei militari dall’indipendenza, dopo la Seconda guerra
mondiale, e dopo l’emancipazione dal dominio coloniale britannico. Per cui qualche
secolo fa si sarebbe chiamata “restaurazione” e adesso si chiama in un altro modo.
D. - In questo contesto, il comandante dell’esercito e ministro della Difesa
ribadisce che si candiderà alle prossime presidenziali, se il popolo lo vorrà…
R.
- Credo sia un esito logico e naturale rispetto ad un percorso di un anno che ha portato
il generale Abdel Fattah al Sisi a diventare la principale autorità politica in Egitto.
Del resto il generale al Sisi ha dalla sua il supporto degli Stati del Golfo, in particolare
dell’Arabia Saudita, che è il nuovo padrino politico della transizione post-Mubarak;
ha dalla sua, tutto sommato, la non voluta opposizione della Casa Bianca; e la freddezza
e l’indifferenza delle potenze europee: per cui al Sisi si prepara a candidarsi, a
vincere le future presidenziali egiziane, a fare quello che faceva Mubarak; e, prima
di Mubarak, faceva Sadat; e, prima di Sadat, faceva Nasser.
D. - Ricordando
anche che i militari da sempre detengono anche il controllo dell’economia del Paese…
R.
- Il vero cortocircuito che c’è stato tra le autorità interinali egiziane e la Fratellanza
musulmana è stato proprio - un anno fa - sulle questioni economiche. In sostanza la
Fratellanza musulmana ha fatto quello che non doveva fare: ha toccato gli interessi
economici della classe militare egiziana. Questa era una "soglia rossa" che Morsi
ha oltrepassato e che, di fatto, ha portato alla fine politica di Morsi, riportando
la Fratellanza musulmana entro quei confini in cui i regimi militari pretendenti la
avevano tradizionalmente e sempre tenuta.
D. - Cosa rimane della rivoluzione
del 25 gennaio, che aveva portato invece alla deposizione del regime di Mubarak?
R.
- Credo sostanzialmente che non resti niente! Se allarghiamo il discorso a tutto il
Medio Oriente, a tutto il Nord Africa, credo che delle rivolte della primavera del
2011 non resti nulla di più! In Libia abbiamo un Paese dilaniato dalla lotta tra le
fazioni, separato di fatto ormai in tre macroregioni, quella del Fezzan, della Tripolitania
e della Cirenaica; in Tunisia il governo riesce ad esercitare la propria autorità
a mala pena sulla capitale, mentre il Sud del Paese è fuori controllo; in Siria sappiamo
tutti quello che è successo. Per cui di quella ondata che era nata sulla spinta del
grande discorso di Obama all’Università al-Azhar del Cairo del 2009 sostanzialmente
non rimane niente!