2014-01-14 13:30:02

Discorso al Corpo Diplomatico. Il teologo Coda: il Papa esorta a superare logiche individualistiche


"Serve un impegno comune per favorire una cultura dell’incontro, perché solo chi è in grado di andare verso gli altri è capace di edificare la pace. Quanto dolore, quanta disperazione causa la chiusura in sé stessi". E' questo uno dei passaggi centrali del discorso che Papa Francesco ha rivolto lunedì al Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Per un commento, ascoltiamo don Piero Coda, teologo, preside dell’Istituto Universitario Sophia di Loppiano, al microfono di Fabio Colagrande:RealAudioMP3

R. - Nel Papa si sente vibrare la compassione, che diventa indignazione, per le ferite che vengono inferte a tanti fratelli e a tante sorelle, a partire dai più deboli, dai più emarginati. Ma questo sentimento profondo di compassione con chi è vittima della violenza, dell’odio, dell’emarginazione e di indignazione contro quei meccanismi sociali e quelle perversioni di sentimenti che escludono qualcuno, diventano in lui proposta concreta di un atteggiamento spiritualmente rinnovato, convertito all’azione di Dio nella storia e proprio per questo un atteggiamento che si modula su una relazione di apertura, di prossimità. Il Papa parla - è una bellissima espressione, che riprende dal suo discorso a Lampedusa - di "responsabilità fraterna". Responsabilità fraterna vuol dire che l’altro non è indifferente, non è escluso dal cerchio della mia vita, ma l’altro vi fa parte: io sono responsabile dell’altro. Questo è il sentimento di una cultura dell’apertura, della prossimità, dell’incontro di cui - in modo molto forte, in modo molto concreto - il Papa parla.

D. - Papa Francesco ancora una volta - lo ha fatto spessissimo - è tornato sull’importanza che la società deve dare agli anziani e ai giovani. E poi quell’accenno fortissimo ai bambini, che non potranno mai vedere la luce, vittime dell’aborto; o ai bambini soldato, ai bambini violentati e uccisi nei conflitti armati…

R. - Questo significa una cosa molto profonda: non possiamo tirarci indietro rispetto alla responsabilità che ci investe di fronte a tutti i casi in cui qualunque persona umana - dal concepimento fino all’espletamento della sua vita terrena - sia in qualche modo sfruttato. Mi sembra quasi di vedere una attuazione di quello che dice il Concilio Vaticano II nella Gaudium et Spes: occorre superare un’etica puramente individualistica; occorre prendersi carico, nella propria responsabilità, dell’altro, a partire dal più povero e a partire da quelle due dimensioni dell’esistenza, che sono rappresentati dai giovani e dagli anziani: chi entra in pieno nel gioco dell’esistenza della società e chi apporta alla società tutta la ricchezza della sua memoria, come lui dice, e della sua esperienza. Quindi è una sorta di rivoluzione copernicana nel modo di concepire il rapporto tra le generazioni nel forgiare una società in cui veramente la dignità della persona umana sia al centro.

D. - Ha colpito, infine, il nuovo riferimento di Papa Francesco a Paolo VI: in questo caso lo ha citato nella frase “la pace non si riduce ad un’assenza di guerra”…

R. - Certamente questo riferimento che viene dalla Populorum Progressio, che in qualche modo è stato un documento assolutamente profetico, di traduzione della spinta conciliare a far diventare l’etica evangelica un’etica di trasformazione del mondo nel segno della giustizia. E’ solo dalla costruzione di un ordine della giustizia e dell’amore che si costruisce una pace efficace e duratura. Questo implica la visione del Vangelo e dell’azione dei cristiani come lievito e fermento di trasformazione della vita sociale secondo la logica del Vangelo.

Ultimo aggiornamento: 15 gennaio







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