Centrafrica: l'Ue studia l'invio di nuove forze militari
Ancora violenze in Centrafrica, all’indomani delle dimissioni del presidente Djotodia
e del suo primo ministro Tiangaye. Nella capitale Bangui si registrano almeno tre
morti e diversi saccheggi, da parte dei ribelli musulmani "Seleka" e delle milizie
cristiane anti-Balaka. E mentre comincia l’evacuazione degli stranieri presenti nel
Paese, l’Unione europea studia l’invio di nuove forze militari. Per un commento sulla
complessa situazione centrafricana, ascoltiamo Anna Bono, docente di Storia
dei paesi e delle istituzioni africane all’Università di Torino, intervistata da Antonella
Pilia:
R. - Nel breve
periodo io sono molto preoccupata perché non ci si può nascondere il fatto che la
situazione è arrivata a un livello critico estremo, in un Paese in cui la popolazione
si è ritrovata improvvisamente divisa su basi religiose. Il timore è che sia troppo
tardi per impedire una strage, perché è uno stillicidio di morte, di aggressioni,
di violenze… Altro fattore molto importante da aggiungere è che questa crisi si sta
ripercuotendo nei Paesi circostanti e rischia di diventare una crisi regionale di
proporzioni notevoli. E’ certo, per esempio, che nel confinante Congo siano presenti
sia i miliziani dell’ex coalizione "Seleka" sia truppe centrafricane, che sconfinano
seminando il panico nella popolazione del Congo. Lo stesso accade anche in Camerun.
D. - Quali scenari politici si aprono, dunque, nel Paese?
R. - Si vedrà
nei prossimi giorni e nelle prossime settimane cosa può comportare questo cambiamento.
Bisogna aspettare che si sappia quali possano essere le personalità politiche idonee
a sostituire il presidente e il primo ministro. E’ chiaro che si cerca di trovare
dei nomi che accontentino tutte le categorie del Paese.
D. - Alcune organizzazioni
chiedono un rafforzamento del contingente militare. Secondo lei potrebbe essere decisivo?
R.
- Può essere decisivo, però è una situazione veramente molto delicata. Per esempio,
per quanto riguarda il contingente francese che è già attivo da mesi nel Paese, la
popolazione cristiana - che è la maggioranza - lo accusa con veemenza di non aver
fatto il possibile, di non aver agito con abbastanza decisione; d’altra parte, la
popolazione islamica accusa questo contingente, con altrettanta veemenza, di essere
dalla parte degli anti-Balaka, cioè dei cristiani che si sono organizzati in gruppi
militari e che, a loro volta, aggrediscono le comunità islamiche. Dall’esterno - sia
militarmente che diplomaticamente - la storia ci insegna che è più facile creare problemi
che non risolverli. Sono i centrafricani che devono riuscire a trovare un modo di
risolvere questa crisi: finché non c’è una volontà e una capacità oggettiva delle
forze politiche e sociali del Paese - che comunque si stanno muovendo - non si può,
a mio avviso, pensare che interventi esterni, per quanto energici, siano risolutivi.
D.
- Lei come guarda a questa possibilità?
R. - Sono molto preoccupata, perché
quando i vicini - persone e famiglie che prima vivevano relativamente in armonia -
sono ostili fra di loro e si armano gli uni contro gli altri, vuol dire che si è rotto
un equilibrio e non è facile. Bisogna sempre ricordare che in Africa il fattore tribale
è un fattore identitario molto forte e radicato, che facilmente innesca conflitti
e scatena dei mostri, dei demonii… A questo proposito, ricordo il Rwanda e il genocidio
del ’94; ma penso anche quello che sta succedendo in Sud Sudan, in piena guerra civile,
dove i protagonisti sono due etnie: i dinka e i nuer.