Yemen in stallo. Camille Eid: "La via della pacificazione è ancora lontana"
Dallo Yemen, si susseguono notizie di attentati e scontri tra esercito e miliziani
di al Qaeda e altri movimenti separatisti e tra gruppi sciiti e sunniti. Una crisi
quasi dimenticata dopo i giorni della "primavera araba", che hanno evidenziato le
contraddizioni di questo Paese, il più povero dell’area mediorientale, che – unificato
solo nel 1990 – oggi è alla ricerca di una identità federale. Roberta Gisotti ha
intervistato Camille Eid, giornalista e scrittore, esperto del mondo arabo:
D. - A quasi
tre anni dalla caduta del governo dell’ex presidente Saleh, a che punto sono i lavori
della Conferenza per il dialogo nazionale?
R. – Siamo un po’ in ritardo rispetto
al programma prestabilito. Questa Conferenza, tenuta sotto l’egida dell’Onu, avrebbe
dovuto già concludersi da tempo. In effetti, adesso sono arrivati alla risoluzione
di uno dei nove o dieci punti sul tavolo. E’ un punto importante, quello dell’unità
del Paese, della "questione meridionale", come viene definita. Però, rimangono aperti
altri problemi importanti, tra cui il conflitto in atto nella provincia di Saada,
nel nord, tra la ribellione Houthi – come viene definita – e alcuni gruppi salafiti.
Oppure, la minaccia di al Qaeda. Come sappiamo, gli americani combattono una guerra
"invisibile" nello Yemen, già da anni, con gli aerei droni, causando anche diverse
vittime tra i civili yemeniti. Quindi, ci sono diversi altri punti in sospeso e si
spera che questa Conferenza di dialogo nazionale, dopo aver risolto il primo punto
essenziale, vada avanti a risolvere gli altri problemi.
D. – In questa situazione
di empasse, a soffrire di più è la popolazione. Metà dei cittadini soffre la
fame e la sete…
R. – Questo è vero. In effetti, fa anche eccezione, lo Yemen,
nel quadro della penisola arabica, perché vediamo che tutti gli altri Paesi – le monarchie,
che sono sei – sono riuniti nel Consiglio di cooperazione del Golfo, da cui è stato
escluso proprio lo Yemen, essendo in primo luogo un Paese non petrolifero, in secondo
un Paese povero e in terzo una Repubblica, a differenza degli altri, che sono monarchie.
D.
– Questo, naturalmente, rende più difficile risolvere la crisi perché forse ci sono
meno interessi in gioco…
R. – Rende più difficile più che altro perché le istituzioni
statali nello Yemen storicamente non sono mai state forti: prevalgono gli interessi
tribali, del clan… E’ vero che ci sono dei partiti, talvolta anche partiti storici:
basti pensare al Partito del Congresso popolare, nel nord dello Yemen, o al Partito
socialista nel sud. Però, questi partiti alla fine hanno interessi molto ristretti,
personali: è difficile, quindi, vedere dove finiscano gli interessi personali e dove
inizino, invece, gli interessi dello Stato e questo rende molto più complicata la
soluzione dei problemi. E, vediamo che lo Stato – laddove interviene – fa o svolge
il ruolo di mediatore. Ma lo Stato non può fare da mediatore tra i suoi cittadini,
dev’essere casomai l’arbitro della situazione: non intervenire per portare le diverse
parti, che giocano al di fuori dello Stato, alla tregua.
D. – Un Paese,
lo Yemen, che meriterebbe più attenzione da parte della comunità internazionale?
R.
– Sì. Merita di più, però sappiamo che adesso la comunità internazionale è presa in
particolare dalla Siria o da problemi più gravi o più sentiti a livello mediatico.
Lo Yemen interessa relativamente, soprattutto per la sua posizione strategica. Gli
interessi riguardano la presenza di al Qaeda sul suo territorio e lì c’è già un intervento
militare, quello americano. Ma a livello di comunità internazionale e Onu, interessa
relativamente poco, pur sapendo che questa Conferenza si gioca sotto l’egida dell’Onu
in base a due risoluzioni che intendono accompagnare il popolo yemenita a costituire
uno Stato di diritto. Ma siamo ancora all’inizio della strada, purtroppo.