Combattimenti e bombardamenti nella città irachena di Falluja: 13.000 le famiglie
fuggite
In Iraq, Falluja è da giorni in mano ai membri del cosiddetto stato islamico in Iraq
e nel Levante (Isis), legato ad al Qaeda, e di alcune tribù. L’esercito regolare tenta
di riprendere il pieno controllo, ma continuano gli scontri. In queste ore il vice
presidente americano, Joe Biden, ha avuto un colloquio telefonico con il premier iracheno,
al-Maliki, al quale ha ribadito l'appoggio degli Stati Uniti all'Iraq nella lotta
al terrorismo internazionale. Diversi combattenti anti-governativi, mascherati, sono
dispiegati in tutta la città di Falluja, soprattutto sui ponti e agli ingressi dei
quartieri. Secondo la Mezzaluna Rossa, almeno 13.000 famiglie sono fuggite dalla città
che si trova a soli 70 km ad ovest di Baghdad e che è a maggioranza sunnita. In ogni
caso resta una situazione di grande instabilità. Fausta Speranza ne ha parlato
con Germano Dottori, docente di Studi strategici alla Luiss: R. – All’atto del
ritiro americano dall’Iraq si pensava che il governo di Baghdad sarebbe rimasto fedele
al progetto di creare un sistema di divisione del potere abbastanza inclusivo e rispettoso
delle aspettative dei sunniti. Questo, in effetti, era stato uno dei risultati ottenuti
dagli americani. Qualcosa deve essere andato storto dopo il rimpatrio del contingente
americano e questo ha sicuramente contribuito a permettere agli elementi jihadisti
di tornare forti nel cosiddetto “triangolo sunnita”, in cui comunque Al-Qaeda aveva
avuto problemi in virtù dell’estremismo delle sue politiche. Quindi, c’è una situazione
molto complessa: il governo iracheno vuole ripristinare la sovranità su queste zone
sfuggite al suo controllo e all’interno di queste zone operano anche milizie che intendono
sgombrare l’area da Al-Qaeda senza, per altro, sottomettersi al governo di Baghdad.
In questo momento c’è molta confusione.
D. – Al di là dell’emergenza Falluja,
quanto è preoccupante ancora la minaccia di Al-Qaeda in Iraq?
R. – In realtà,
sicuramente c’è un grosso problema che deriva anche da questa convergenza che si è
verificata tra gli elementi qaedisti, operanti tanto in Iraq quanto in Siria. Ma tutto
ciò riflette anche un problema di fondo, cioè che in questi Paesi non si è riusciti
a creare un sistema di governo soddisfacente anche per tutti coloro che sono rimasti
in qualche modo esclusi dalla gestione del potere ed i cui diritti spesso non hanno
trovato adeguata soddisfazione nelle politiche dei rispettivi governi.
D. –
Quanto la situazione in Iraq va pensata nel contesto del dramma della Siria?
R.
– Ci sono dinamiche locali e dinamiche regionali. Ritengo che la nuova politica americana
di riconciliazione con l’Iran abbia creato premesse differenti: non è un caso che
in questo momento gli Stati Uniti stiano sostenendo gli sforzi del governo di Baghdad,
tesi a recuperare il controllo sul “triangolo sunnita”; ma di qui ad immaginare un
coinvolgimento più forte occidentale e statunitense in primo luogo sul terreno ce
ne corre. Ritengo che si cercherà di rimanere il più possibile esterni a quanto accade
in questi territori, sperando che un equilibrio di forza e di potenza soddisfacente
riesca ad emergere sul terreno da sé.