Miniserie tv "Un matrimonio". Pupi Avati: oggi lo scandalo è un matrimonio che
dura
“Il vero scandalo moderno non è la separazione, ma un matrimonio duraturo”. Parola
del regista Pupi Avati, che nei giorni scorsi ha debuttato con successo su Raiuno
con la miniserie “Un matrimonio”. La fiction racconta la storia di due ragazzi che
si sposano nel dopoguerra e, superando le difficoltà, si ritrovano insieme ancora
oggi dopo 50 anni. Ascoltiamo lo stesso Pupi Avati al microfono di Antonella
Pilia:
R. – Sono arrivato
a 49 anni di matrimonio, quindi so che cos’è un matrimonio e ritengo di essere legittimato
a parlarne, mentre avverto che in tutto il Paese chi parla di famiglia il più delle
volte è chi ha un matrimonio magari andato male dopo il quarto anno e si trova già
al secondo matrimonio, o comunque non ha maturato quella che è la conoscenza di un
rapporto così speciale, così particolare, così misterioso, così sacrale, come è l’unione
di un uomo e una donna che si promettono la vicinanza, la reciproca protezione nel
generare dei figli, garantire loro due genitori… Due persone che, insomma, si sono
impegnate in un patto quando del matrimonio non sapevano nulla, perché chi si va a
sposare in genere, giustamente, non sa nulla di quello che poi è la realtà di una
convivenza e la scopre nell’arco dei decenni che vanno a susseguirsi. Oggi, io che
la conosco, mi sento legittimato a poter raccontare quella che è stata la mia esperienza
perché altri poi decidano – ed io mi auguro positivamente – di assumere questo tipo
di impegno.
D. – Parlare di un matrimonio duraturo oggi è controcorrente nell’ambiente
cinematografico?
R. – Lo è in modo così radicato che quando sono andato a proporre
sei anni fa in Rai questo progetto dicendo: “Vorrei raccontare un matrimonio che dura
50 anni”, il funzionario che avevo di fronte mi disse: “Ma allora è un film in costume,
fatto di crinoline e parrucche, ottocentesco”... Questo, perché i matrimoni di 50
anni oggi, secondo un’opinione pubblica, non esistono. Non è assolutamente così. È
vero che il matrimonio è anzitutto in crisi, che le separazioni e i divorzi sono –
ahimè - in aumento. Ma di matrimoni che resistono in questo Paese ce ne sono ancora
tanti, fortunatamente. E quindi è a quella parte che io, in qualche modo, mi rivolgo
nella consapevolezza che un buon matrimonio produce dei buoni figli, quindi dei buoni
italiani, dei giovani che socialmente, culturalmente, intellettualmente ed eticamente
avranno un comportamento, secondo me, che ci garantisce di più e meglio negli anni.
D.
– Quindi, indebolire la famiglia significa in qualche modo indebolire la società stessa…
R.
– Dovrebbe. E lo sto suggerendo a tutte le persone di potere con le quali mi incontro.
Le poche volte che mi capita di incontrarli, dico loro: “Vi preoccupate così tanto
di tante tematiche che riguardano sempre e solo gli aspetti finanziari. Perché non
date un po’ più di energia, di carburante alle famiglie e non le incoraggiate a essere
tali? Quindi, produttrici di italiani di qualità?”. Credo che se in passato noi eravamo
orgogliosi del nostro Paese, del comportamento dei nostri cittadini, era perché c’erano
delle famiglie straordinarie, con dei genitori straordinari, assolutamente imparagonabili
a quelli che sono i genitori di oggi, soprattutto per quanto riguarda la figura più
erosa, che è venuta più a mancare, quella che ha subito - secondo me - il deterioramento
maggiore: la figura paterna. Noi abbiamo dei pessimi papà.
D. – A che cosa
è dovuto, secondo lei?
R. – Secondo me, è dovuto al relativismo, al fatto che
ognuno di noi si faccia una sorta di “morale prêt-à-porter”, non avverta le responsabilità
del proprio ruolo all’interno di un contesto familiare, e che soprattutto i genitori
maschi, i papà, antepongano a tutto la carriera, la loro professione. Sono sposati
con la loro professione, non con la loro moglie.