10 anni fa veniva ucciso in Burundi il nunzio Courtney: all'odio etnico oppose la
testimonianza cristiana
Ricorreva domenica il 10° anniversario della morte dell’arcivescovo Michael Aiden
Courtney, nunzio apostolico in Burundi, ucciso il 29 dicembre 2003 da colpi d’arma
da fuoco, nei pressi di Bujumbura. Il movente e gli autori del delitto restano ancora
ignoti. Il Paese nei primi anni 2000 viveva un periodo di transizione, dopo una sanguinosa
guerra civile e una difficile convivenza etnica tra hutu e tutsi. I tentativi di pacificazione
erano portati avanti, tra gli altri, dalla Comunità di Sant’Egidio: tra i suoi operatori,
anche don Angelo Romano, oggi rettore della Basilica romana di San Bartolomeo
all’Isola. A lui, Giada Aquilino ha chiesto un ricordo di mons. Courtney e
del Burundi di quegli anni:
R. - Era l’anno
in cui il Burundi faticosamente stava cercando di uscire dalla guerra civile, che
era iniziata esattamente dieci anni prima, nel ’93; adesso sono 20 anni da quella
data. Nell’ottobre del ’93 era stato ucciso il primo presidente democraticamente eletto
del Paese, Melchior Ndadaye: si scatenò una guerra che era insieme politica ed etnica.
Nel 2000 poi ci furono gli accordi di Arusha, in Tanzania, fatti con la mediazione
prima di Mwalimu Nyerere e poi di Nelson Mandela: accordi cui la Comunità di Sant’Egidio
aveva attivamente partecipato. A queste intese seguì una fase molto lunga di applicazione
degli accordi e di coinvolgimento delle fazioni armate, che non erano comprese negli
accordi di Arusha: ce ne erano alcuni che erano rimasti fuori, tra cui il movimento
al quale appartiene l’attuale presidente del Burundi, Pierre Nkurunziza, e altri movimenti
importanti. Quindi nel 2003 si era verso la fine della guerra e, come spesso avviene,
le fasi finali dei conflitti sono anche molto sanguinose. Purtroppo mons. Courtney
è rimasto vittima proprio di un attacco durante questa fase conclusiva. La sua morte
è però significativa perché, così come tanti sacerdoti, vescovi e missionari che sono
morti durante questo conflitto, è in qualche modo il segno di una vicinanza della
Chiesa cattolica alla popolazione, che ha sofferto enormemente durante questo conflitto.
D. - Perché fu ucciso il nunzio Courtney?
R. - Le circostanze della
sua morte rimangono abbastanza oscure. Si sa soltanto che, mentre viaggiava, la sua
automobile venne attaccata e fu ucciso. Le ragioni di questo omicidio non sono chiare:
c’è anche il dubbio se volessero veramente attaccare il nunzio o se mons. Courtney
rimase vittima di un attacco indiscriminato fatto lungo le vie di comunicazione, come
avveniva spesso nel conflitto burundese. Una cosa è certa: il nunzio è stato ucciso
perché si spendeva per la pace e quindi era una persona vulnerabile in quanto girava
il Paese. Lui aveva preso la sua funzione di nunzio in Burundi con grande serietà
e con grande impegno e questo lo portava a visitare molte diocesi e molte parti del
Burundi, esponendosi a quelli che erano i rischi di questo tipo di azione. Quindi
non c’è dubbio che la sua morte si iscrive anche nel segno di un dono fatto al Paese,
perché il suo contributo alla pace nasce proprio dal fatto che - come tanti morti
durante il conflitto - non sia fuggito da una situazione di pericolo, ma al contrario
sia rimasto vicino alla gente.
D. - L’arcivescovo Courtney predicava l’amore
reciproco, la riconciliazione cristiana, l’armonia e l’unità tra le persone. Non a
caso la Conferenza episcopale burundese ha dedicato il 29 dicembre alla Giornata speciale
di preghiera per la pace e la riconciliazione nel Paese. A che punto è oggi il Burundi?
R.
- Non c’è dubbio che, se guardiamo retrospettivamente, vediamo che è anche un Paese
che ha saputo trovare la sua strada per la pace. Indubbiamente ci sono molti problemi,
ma oggi nel Parlamento siedono quelli che prima erano i nemici, quelli che prima si
facevano la guerra. Il Paese appartiene agli hutu, ai tutsi, ai twa - i pigmei - e
agli swahili e a quelli che hanno scelto di abitarci. E’ un Paese che deve trovare
una sua armonia e penso che - con fatica e dopo quasi 250 mila morti - la stia trovando
anche grazie al sacrificio di persone come il nunzio Courtney.
D. - All’Angelus
di Santo Stefano, Papa Francesco ha esortato tutti i cristiani a pregare per quanti
sono perseguitati a causa della loro fede in Gesù, ricordando che le persecuzioni
sono comunque occasione per rendere testimonianza. Quindi l’esempio di mons. Courtney
qual è in tal senso?
R. - In tal senso è l’esempio di una persona che alla
logica terribile dell’odio etnico ha opposto una vera testimonianza cristiana. Mons.
Courtney di fronte alla predicazione dell’odio - perché c’era una predicazione dell’odio
durante il conflitto burundese - ha opposto, insieme a tutta la Chiesa cattolica burundese,
una predicazione in senso opposto...
D. - Per Sant’Egidio, da sempre impegnata
in Burundi, qual è la speranza? Qual è l’auspicio per il futuro del Paese africano?
R.
- Che il Paese continui sulla strada della riconciliazione: qui e là ci sono dei segni
preoccupanti, certo. Credo che la storia del Burundi debba essere la storia e l’esempio
di un Paese piccolo - sono 6 milioni di abitanti ed è grande territorialmente quanto
il Belgio - che sta cercando di costruire una pagina nuova. Io credo che, in questo
senso, i cristiani e la Chiesa siano chiamati veramente a fornire gli elementi per
questa costruzione, perché il Paese non possa più rivivere gli orrori del passato.