Sud Sudan: i ribelli conquistano le aree petrolifere. Obama: possibili nuove misure
In Sud Sudan non si arresta l’avanzata dei ribelli, fedeli all’ex vice presidente,
Riek Machar. I miliziani hanno conquistato nelle ultime ore vaste aree nelle zone
petrolifere al confine con il Sudan. Preoccupazione per lo sviluppo degli eventi nella
comunità internazionale. Ieri il presidente americano, Obama, ha paventato l’adozione
di nuove misure, dopo il rafforzamento del contingente militare statunitense a Juba.
Il capo della Casa Bianca ha anche esortato l’Onu a ridistribuire sul terreno i suoi
osservatori. Sentiamo Giulio Albanese:
Il presidente
Barack Obama scrive, dunque, al Congresso, assicurando che continua a monitorare la
situazione In Sud Sudan, soprattutto dopo l’incidente di sabato, quando quattro militari
statunitensi sono rimasti feriti da colpi di arma da fuoco, durante una missione per
evacuare i propri connazionali dal Paese africano. E proprio a tutela degli americani,
Obama avverte il Congresso che potrebbe decidere ulteriori misure. D’altronde il governo
di Juba ha ammesso che, dopo furiosi combattimenti contro le truppe lealiste, le unità
speciali in rivolta, seguaci dell’ex vice presidente Riek Machar, hanno assunto il
pieno controllo dello Stato settentrionale di Unity, al confine con il Sudan settentrionale,
dove si trovano i principali giacimenti petroliferi. Un’operazione resa possibile
grazie al sostegno di qualche sponsor straniero.
Sulla situazione in Sud
Sudan, Giancarlo La Vella ha intervistato Anna Bono, docente di Storia
e Istituzioni dei Paesi africani all’Università di Torino:
R. - In questo
momento il motivo principale che si evidenzia è quello dell’incapacità delle varie
componenti etniche del Paese di trovare un accordo e un’equa spartizione del potere.
D. - Quanto sta avvenendo in Sud Sudan è qualcosa di meramente interno o c’è,
in qualche modo, il coinvolgimento di Khartoum?
R. - Certo che Khartoum non
ha giocato a favore di questo nuovo Paese e delle sue prospettive: dal 2011 le due
capitali si scambiano accuse reciproche di finanziare e aiutare le rispettive ribellioni.
Poi c’è anche il fatto che i tre quarti dei giacimenti di petrolio, che facevano la
ricchezza del Sudan, si trovano nel Sud Sudan; ma, questo nuovo Stato non ha disposizioni
poi gli oleodotti necessari e i terminali per esportare il suo petrolio. Khartoum
per far passare, attraverso i propri oleodotti, il petrolio estratto nel Sud Sudan
esigeva percentuali sui proventi che il nuovo Stato non era disposto ad accettare.
La conseguenza è stata che per oltre un anno il Sud Sudan non ha più prodotto petrolio,
il che si è tradotto in una crisi economica per entrambi i Paesi, con costi umani,
ma anche di instabilità politica crescenti.
D. - Che cosa può fare la comunità
internazionale per la stabilizzazione in Sud Sudan?
R. - In questo momento
direi ben poco: può ammonire, tentare di creare un tavolo di trattative, fare lavoro
di intermediazione… Però il problema è davvero molto grosso! Forse si poteva fare
qualcosa prima in termini di prevenzione. Quello che sta succedendo è davvero una
tragedia annunciata!
Per un’analisi degli interessi regionali che muovono il
conflitto, Marco Guerra ha sentito Enrico Casale, africanista del periodico
dei Gesuiti "Popoli":
R. – Questo conflitto è il frutto di tensioni forti tra
potenze straniere. Ci sono interessi forti, innanzitutto da parte della Cina che è
da sempre uno dei maggiori acquirenti del petrolio sudanese, in origine, e sud sudanese
attualmente. Poi degli Stati Uniti, che nel Sud Sudan avevano trovato uno dei loro
"pilastri", in Africa, assieme all’Uganda e al Rwanda. La tensione era già palpabile
qualche tempo fa. Il Sud Sudan si sta armando da tempo, grazie anche ai proventi del
petrolio.
D. – L’intervento deciso della diplomazia internazionale, visti gli
interessi stranieri, può sortire qualche effetto?
R. – Penso di sì, se la comunità
internazionale si muove tutta insieme, facendo capire innanzitutto che, come sta già
succedendo in altri teatri di guerra africani, qualsiasi crimine di guerra non verrà
perseguito solamente durante il conflitto, ma anche dopo il conflitto. Quindi, la
comunità internazionale dev’essere ferma, su questo punto. Dev’essere ferma anche
sul fatto che la popolazione civile non deve essere coinvolta nel conflitto. L’Onu
deve essere pronta a inviare proprie truppe a difesa delle popolazioni civili, delle
comunità locali che già adesso stanno subendo i primi contraccolpi di questo conflitto
che, purtroppo, si preannuncia sanguinoso.
D. – Più che questioni interetniche,
si nascondono scopi economici, come il controllo di giacimenti petroliferi…
R.
– Sì, i giacimenti petroliferi sono ricchissimi e dopo la divisione tra Sudan e Sud
del Sudan si trovano in gran parte nel Sudan meridionale, che però cerca uno sbocco
per riuscire a vendere sui mercati internazionali i propri prodotti petroliferi, perché
non ha uno sbocco al mare. Quindi, ha avuto una lunga diatriba con il Sudan del Nord
per sfruttare l’oleodotto che arriva a Port Sudan. Ci sono trattative abbastanza importanti
con i Paesi del Sud, in particolare con il Kenya, per fare passare un oleodotto. Ma
io vorrei anche sottolineare come, oltre al petrolio, nel Sud del Sudan si giochi
anche una partita più grossa, che è quella dell’acqua: il Sud del Sudan è attraversato
dal Nilo, la cui acqua è fondamentale sia per i Paesi a valle – pensiamo al Sudan
e all’Egitto – ma anche per i Paesi a monte, e pensiamo soprattutto all’Etiopia. Quindi,
pensiamo se creassero degli sbarramenti nel Sud del Sudan, il Sudan e l’Egitto rimarrebbero
a secco. Su questo terreno dell’acqua si possono giocare anche altre tensioni, molto
più forti probabilmente, di quelle del petrolio.
D. – Quindi, le nazioni confinanti
sono parte del problema o possono anche loro partecipare alla pacificazione?
R.
– E’ auspicabile che partecipino alla pacificazione e che si raggiunga, magari attraverso
una conferenza internazionale, un accordo regionale sia per lo sfruttamento del petrolio,
sia per lo sfruttamento delle risorse idriche. E’ certo che, in questo grosso gioco
in corso in Africa tra Stati Uniti e Cina, anche i Paesi confinanti hanno un ruolo.
Ma non dimentichiamo che anche l’Etiopia è molto vicina agli Stati Uniti, e in misura
minore anche il Kenya. Il Sudan, al Nord, ha ottimi rapporti con la Cina. Tutti questi
attori regionali, insieme con quelli internazionali, dovrebbero riuscire a trovare
insieme una soluzione per un’equa ripartizione delle risorse e quindi un distribuzione
anche più equa delle risorse alla popolazione.