Torna nella Basilica di Santa Croce il Crocifisso di Cimabue
Torna nella Basilica di Santa Croce a Firenze il Crocifisso di Cimabue, primo esempio
dell’iconografia francescana del Cristo dolente. Danneggiato dalla piena dell’Arno
del 1966, restaurato dall’Opificio delle Pietre Dure e poi conservato per anni nel
complesso museale del convento, ieri pomeriggio il capolavoro, ricontestualizzato
nella sacrestia della chiesa a un'altezza di cinque metri, è stato benedetto dall’arcivescovo
di Firenze, il cardinale Giuseppe Betori. Grande la soddisfazione di Stefania Fuscagni,
presidente dell’Opera di Santa Croce, intervistata da Paolo Ondarza:
R. - È avvenuto
qualcosa di molto pertinente alla storia, allo spirito di Santa Croce. Un ritorno
a una sacralizzazione, o meglio, una riconsacrazione di un’opera che dal museo rientra
nella chiesa. Ed è stato bellissimo vedere questo volto tutto coperto ripassare per
l’ingresso principale di Santa Croce, per poi entrare nel luogo rialzato dove il visitatore
respira la sacralità di quel crocifisso. Quel crocifisso è stato il primo che ha interpretato
in termini artistici lo spirito di San Francesco delle stimmate.
D. - Ci troviamo
infatti di fronte ad un esempio di Cristo Patients…
R. - …di Cristo
Patients rispetto al Cristo Triumphans precedente. Un’idea di crocifissione
che esprime l’incontro, attraverso le stimmate, tra Gesù crocifisso e San Francesco.
Da questa spiritualità è nata un’immagine: la croce dipinta e dolente è l’incontro
del Cristo con ognuno di noi. Chi ha più la cognizione che questa raffigurazione avvenne
a partire dal 1200?
D. - Quindi, appare opportuno riportare questo crocifisso
in uno spazio sacro, anche per queste ragioni …
R. - In uno spazio sacro e
comunicarlo al visitatore, a quegli 800 mila visitatori che non entrano in un museo,
ma in un luogo sacro, in cui sono state prodotte opere ispirate alla spiritualità,
in questo caso di Francesco. L’idea di vedere il cardinale Betori che ribenedice il
crocifisso di Cimabue, per noi è un messaggio che vogliamo dare al visitatore, sia
esso cristiano o no. É un’informazione di senso. Noi “restauriamo il senso” di quelle
opere d’arte che sono nate grazie ad uno spirito religioso.
D. - Potremmo dire
che vi trovate a maneggiare la storia, con grane attenzione alla delicatezza con la
quale si può movimentare un manufatto artistico di tanto valore …
R. - Abbiamo
incaricato le ditte specializzate più accreditate a livello scientifico. Quando al
Palazzo Vecchio e al Forte Belvedere un artista, che è un monaco orientale, fa una
mostra di tipo religioso, oppure quando nella biennale dell’arte contemporanea di
Firenze noi vediamo che il titolo è “L’etica come dna dell’arte”, mi chiedo: è possibile
che noi cristiani non possiamo riportare alla percezione dei cristiani e dei non cristiani
l’idea che la croce dipinta dolente è frutto di una spiritualità, quella di san Francesco?
A Santa Croce bisogna farlo.
D. - Vorrei ancora sottolineare un aspetto che
lei ha già toccato: la collocazione nella sagrestia permette di elevare la croce ad
un’altezza tale, al di sopra del corso del fiume, da metterla in sicurezza e non farla
andare incontro nuovamente al rischio esondazione…
R. - Certo. Non vogliamo
arrivare al 2016 con il crocifisso ancora a rischio. E quindi abbiamo trovato una
collocazione che ne rispetta anche la sacralità; noi chiederemo silenzio ai visitatori
che verranno a vederla. Il nostro personale è stato formato non come personale di
presidio, ma di accoglienza: dovrà comunicare al visitatore le forme opportune, a
cominciare dal più assoluto silenzio, attraverso le quali contemplare queste opere.
Crediamo di aver fatto una cosa assolutamente nuova.
D. - Perché l’arte, in
particolare quella sacra, adempia veramente a quella che è la sua funzione: quella
di elevare lo Spirito…
R. - Senza lo spirito religioso, quell’opera d’arte
non ci sarebbe stata. Questo è quello che noi vogliamo comunicare.