Centrafrica. Le truppe francesi disarmano i ribelli, 400 morti in tre giorni di violenze
Il Centrafrica torna a sperare. Dopo il via libera del Consiglio di Sicurezza dell’Onu,
le truppe francesi sono giunte nel Paese, accolte dall’entusiasmo della popolazione,
per riportare pace e sicurezza. Parigi ha schierato 1600 militari con l'obiettivo
di porre fine ai massacri compiuti dai miliziani islamisti "Seleka". In tre giorni
di violenze, nella sola capitale Bangui, sono morte circa 400 persone. L'intervento,
ha detto il presidente francese Hollande, sarà "rapido ed efficace" e dovrà "disarmare
tutte le milizie e i gruppi armati che terrorizzano la popolazione''. Scontri si registrano
ancora un po' dovunque, come a Bozoum, nella zona occidentale del Paese. Qui opera
il padre carmelitano Aurelio Gàzzera, missionario in Centrafrica da oltre 20
anni, che – al microfono di Fabio Colagrande – spiega quanto sta succedendo
in questa località:
R. – Qui c’è
poco di politico. Questa è gente che ha perduto tutto e dopo otto, nove mesi di questo
regime terrorista, si hanno queste reazioni, che spesso, purtroppo, coinvolgono le
varie comunità: musulmane, cristiane e così via. Crea dei problemi, quindi, a quel
livello. Sono banditi. Ci sono stati massacri veri e propri prima da una parte e poi
dall’altra.
D. – Come vede il via libera dell’Onu a questa missione di peace-keeping?
R.
– E’ positivo che l’Onu intervenga e che la Francia possa fare qualcosa, visto che
hanno una ottima conoscenza del terreno e del Paese.
D. – Sicuramente, però,
saranno ancora settimane e mesi di violenza ...
R. – Quello che si teme è,
appunto, che prima di andarsene, questi ribelli - che sono assolutamente da mandare
via - faranno disastri. Questo è quello che si teme. Adesso vedremo un po’ nei prossimi
giorni, se ci sarà un’evoluzione rapida o meno. Vedremo un po’.
D. – Qual è
la situazione umanitaria della popolazione di Bozoum?
R. – Adesso, moltissimi
si sono rifugiati nella nostra missione e ci stiamo organizzando per cercare di accoglierli
in modo decente. Già la notte scorsa erano 300, 400, ma adesso, penso, saranno già
oltre un migliaio. Qui si sentono in sicurezza ed è anche bello che la missione sia
un luogo di rifugio e di relativa tranquillità.
D. – La maggioranza è di religione
cristiana?
R. – La maggioranza sì. I musulmani, qui, credono siano un dieci
per cento, anche se è una comunità piuttosto radicata, perché sono qua da anni. Non
ci sono grossi problemi tra i musulmani e i cristiani: c’è sempre stata una buona
convivenza, con qualche piccolo problema ogni tanto. Questa guerra, però, sta mettendo
un po’ tutto in gioco.
D. – Uno degli ultimi timori è davvero che questo tipo
di conflitto si trasformi in un conflitto interreligioso...
R. – La possibilità
c’è ed è già molto concreta. Ci sono già state delle violenze che mirano direttamente
ai musulmani, con poi reazioni contrarie. E quelle purtroppo ci sono già state dall’inizio.
Questo movimento della Seleka, infatti, è composto in maggioranza da musulmani del
Nord, del Sudan e del Ciad, quindi questo ha creato tensione, gelosia, rancore e sarà
poi difficile da cambiare, ci vorrà molto tempo.
D. – Come la vostra missione,
la vostra parrocchia, sta preparando la festa del Santo Natale, in un momento così
difficile di paura?
R. – E’ un momento in cui sentiamo anche forte il senso
della speranza e dell’attesa, che il momento liturgico ci suggerisce. In questi giorni,
appunto, si fa sentire più forte questo desiderio. La prima domenica di Avvento abbiamo
iniziato con la Lettura di Isaia, dove si dice: “Forgeranno le loro spade in vomeri”.
Questo ci ricorda che la pace è un dono, ma bisogna anche saperlo lavorare e preparare.