Centrafrica, caos e violenza nel Paese: decine di morti. Sì dell'Onu a intervento
francese
In Centrafrica non cessa la violenza. Scontri sono in corso a Bangui tra gli ex ribelli
islamisti del Fronte Seleka, e i combattenti rimasti fedeli al deposto presidente
Francois Bozizè. Numerose le vittime: oltre ottanta cadaveri sono stati rinvenuti
in una moschea e per le strade di Bangui. Secondo la Caritas locale circa seimila
persone si sono rifugiate nelle 15 parrocchie della capitale. Intanto, il Consiglio
di Sicurezza dell'Onu ha adottato all'unanimità una risoluzione per l'invio di 1.200
soldati francesi nella Repubblica Centrafricana. I Quindici hanno dato il via libera
all'intervento di Parigi in appoggio alle forze africane già presenti in Centrafrica
per il ripristino dell'ordine nella regione. Il servizio di Massimiliano Menichetti:
La Repubblica
centrafricana non esce dal caos. Da questa mattina, nella capitale Bangui si fronteggiano,
affiancate da bande locali, le milizie armate fedeli al deposto presidente, Francois
Bozizè - uscito di scena il 24 marzo scorso - e gli ex ribelli islamisti del Fronte
Seleka, che attualmente guidano il Paese. Venti le persone che hanno perso la vita,
imprecisato il numero dei feriti. "Ci sono colpi di arma da fuoco dappertutto", ha
confermato Amy Martin, responsabile per il Centrafrica dell'Ufficio Onu per il Coordinamento
degli Affari Umanitari. Una “situazione molto preoccupante, e gravi sono i rischi
per il Paese” ha detto Martin Tumenta Chomu, il generale camerunese che comanda la
Misca, il corpo di pace inviato dall'Unione Africana. Intanto l’Onu ha dato il via
libera alla missione di stabilizzazione francese che porterà subito in Centrafrica
altri 1200 militari. I peacekeepers già presenti nel Paese sono entrati in
azione per sedare le violenze, quasi rispondendo all’appello del primo ministro della
centrafricano, Nicolas Tiangaye, che ha invocato un intervento immediato delle truppe
di Parigi.
Per padre Elisée Guendjange, segretario generale della Caritas
in Centrafrica, non si può parlare di un conflitto interconfessionale, anche se il
rischio che diventi tale è molto alto. L'intervista è di Marie Duhamel:
R. – Il y
a une tentative – il faut le reconnaitre – d’instrumentalisation de religion… Bisogna
riconoscerlo: in questo momento c’è il tentativo di strumentalizzare la religione.
Ma questo dipende da alcuni elementi che si sono infiltrati tra gli anti-balaka. Gli
anti-balaka sono dei giovani che hanno assistito a violenze sessuali sulle loro mogli,
che hanno visto uccidere le loro madri, anche tra loro qualcuno è stato violentato…
Loro non vogliono più sopportare tutto questo e quindi sono entrati nella la savana
con gli “anti-balaka”, per opporsi al Séléka. Magari queste rivendicazioni sono anche
giuste, ma ci sono – tra loro – infiltrazioni di elementi estranei che li spingono
ad agire contro alcuni musulmani che sono innocenti, in tutta questa faccenda. Infatti,
perfino dei musulmani hanno subito saccheggi dal Séléka. In questo momento, il rischio
è proprio questo: che si sta cercando di fare entrare in conflitto i gruppi religiosi,
quando fondamentalmente queste gruppi non sono in conflitto, nemmeno a Bangui.
D.
– Chi sta cercando di creare queste ulteriori tensioni?
R. – Oh, derrière il
y a certaines hommes politiques… Oh, dietro ci sono determinati uomini politici…
D.
– Si parla al tempo stesso di conflitto interconfessionale e di guerra civile. Lei
quale lettura ne dà?
R. – D’un coté, on a comme l’impression qu’il y a eu une
occupation étrangère… Da un lato, si ha quasi l’impressione di trovarsi sotto occupazione
straniera. Molti degli uomini armati che si trovano in quella zona parlano arabo,
sono ciadiani e sudanesi. Io non mi pronuncio ancora sul concetto di guerra civile,
ma esiste comunque il rischio di strumentalizzazione, ed è quello che noi non vogliamo.
E’ già stata approntata una piattaforma religiosa dall’arcivescovo e dal presidente.
Ci sono anche il rappresentante protestante e quello musulmano: tutti loro si comprendono
molto bene. Quando si sono fatti gli spostamenti, la piattaforma ha seguito gli spostamenti
per sensibilizzare le persone alla riconciliazione e alla pace.
D. – Esiste
un dialogo anche con i ribelli del Séléka, o incutono troppo timore?
R. – C’est
un peux difficile. Je vous donne le cas, par exemple, de la dernière… E’ un po’
difficile. Le faccio l’esempio dell’ultima missione. Giunti all’ingresso della città
di Bossangoa, nemmeno l’imam è stato accettato dal Séléka. Uno di loro ha detto: “Lasciami
in pace, con queste cose”. Abbiamo l’impressione che tra i musulmani ce ne siano che
non praticano nemmeno la loro religione, quindi che non ascoltano nemmeno i loro imam:
e questo è grave.
D. – Questo significa che, in qualche modo, ci sono dei mercenari
tra loro. Lei pensa che con l’arrivo dei soldati stranieri, questi ultimi possano
diventare ancora più aggressivi, sentendosi potenzialmente minacciati?
R. –
Pour le moment, ils ont peur. Certains commencent même a fuir… In questo momento,
hanno paura. Alcuni si sono anche dati alla fuga. Da cinque giorni ci sono i sudanesi
a Yaloké. Yaloké è una provincia a 225 km da Bangui. Erano lì, e lì imponevano le
loro leggi. Ma da quando hanno saputo che verrano i soldati francesi, sono saliti
sui loro mezzi e se ne sono andati. E la popolazione, che si è rifugiata nella savana,
sta incominciando a uscirne. Questo è già un grande sollievo per questa popolazione,
che è stata per tanto tempo oppressa e presa in ostaggio. Noi ci auguriamo che lo
spiegamento delle forze francesi avvenga quando prima, perché la forza di pace internazionalenon ha ancora l’autorizzazione ad intervenire direttamente. I ribelli uccidono
le persone direttamente davanti ai loro occhi, violentano le donne… Ecco perché noi
auspichiamo vivamente l’arrivo dei militari francesi, affinché ci sia di nuovo la
sicurezza nel Paese.