2013-11-23 08:24:47

Usa: il ricordo di John Kennedy a 50 anni dall'assassinio a Dallas


Tutta l’America ha ricordato John Fitzgerald Kennedy, nel giorno del cinquantesimo anniversario dell'assassinio a Dallas, in Texas, dell'ex presidente avvenuto il 22 novembre 1963. Da New York, Elena Molinari:RealAudioMP3

Un minuto di silenzio ha fermato l’America alle 2 del pomeriggio, l’ora in cui fu annunciata la morte del 35.mo presidente degli Stati Uniti. Barack Obama ha però preferito ricordare il contributo lasciato in vita dal vigoroso Jfk, e ha incontrato i vertici del Peace Corps, un’istituzione creata da Kennedy che invia giovani volontari a lavorare per la pace e lo sviluppo nel mondo. “Anche se la vita di John Kennedy è stata breve – ha detto il capo della Casa Bianca – la sua visione continua a vivere nelle generazioni che ha ispirato”. Anche alla Camera, dove Kennedy è stato deputato dal 1947 al 1953, il reverendo John Robert Skeldon ha citato l’idealismo del presidente assassinato invitando come già fece Jfk a "non chiedere cosa il Paese può fare per noi" ma "chiedere cosa possiamo fare noi per il nostro Paese". Intanto migliaia di persone hanno partecipato alle celebrazioni a Dallas per il cinquantenario delle morte di Kennedy e ancora di più si sono recate al cimitero di Arlington, in Virginia, per rendere omaggio alla tomba dell’ex presidente.Celebriamo "l'impronta indelebile di Kennedy sulla storia americana": così, dunque, si è pronunciato Barack Obama nel giorno del 50.mo anniversario dell’uccisione di John Fitzgerald Kennedy. Obama ha sottolineato che “la visione di Kennedy per gli Stati Uniti e per il mondo vive ancora oggi nelle generazioni che ha ispirato”.

Per una riflessione su queste parole, Fausta Speranza ha intervistato Daniele De Luca, docente di storia delle relazioni internazionali all’Università del Salento:RealAudioMP3

R. – Diciamo che, nella storia americana, dopo la morte del presidente Kennedy e quindi la morte della speranza, dell’innocenza, gli americani e molti europei sono stati alla ricerca di un nuovo Kennedy e di quello che avrebbe rappresentato. Obama non avrebbe mai potuto dire una cosa diversa da quello che ha detto di Kennedy anche perché il presidente Obama è forse quello che nella storia è stato maggiormente identificato come continuatore della vita e degli ideali di Kennedy. Ideali che, però, alla fine – diciamolo chiaramente – sono stati realizzati non da lui ma dal suo successore, e cioè dal presidente Johnson: molti, però, dimenticano questo piccolissimo particolare.

D. – Ricordiamo questi ideali?

R. – Gli ideali della "nuova frontiera" si sono trasformati nella "grande società" johnsoniana, cioè i diritti civili per tutti, la difesa della sicurezza nazionale, nel tentativo però sempre di non ledere i diritti dei singoli all’interno degli Stati Uniti. Ciò che Kennedy ha detto, nel suo famoso discorso - e cioè di non pensare a quello che l’America può fare per i cittadini ma l'opposto - é più che altro pensare alla difesa individuale dei cittadini. E questa è una cosa che è stata rilanciata da Kennedy ma poi sviluppata ed approvata dal presidente Johnson, soprattutto con la legge sui diritti civili e con il diritto di voto ai neri.

D. – Obama ha reso omaggio alla tomba di Kennedy, nei giorni scorsi, e nel giorno stesso dell’anniversario, però, ha scelto di non essere a Dallas, dove quest’anno si celebra il 50.mo anniversario della morte, mentre ha scelto di incontrare rappresentanti dell’associazione di volontariato “Peace Corps”. Vogliamo commentare questa scelta?

R. – Questo è stato forse l’organismo di volontari per la diffusione del benessere nel mondo che rappresenta il segno indelebile, la vera eredità del presidente Kennedy: far sì che i giovani prendessero magari un anno sabatico impegnandosi per almeno un anno per aiutare le popolazioni in difficoltà. Diciamo che quello che fanno le ong oggi sono un po’ le emanazioni dei discorsi pronunciati dal presidente Kennedy.

D. – Se è vero che Kennedy ha lasciato un’impronta indelebile nella storia del dopo-John Fitzgerald Kennedy, è anche vero che lui stesso era in continuità con la Storia americana, lui stesso era un prodotto della Storia americana …

R. – Assolutamente sì! Lui non è uscito dai canoni della Storia americana, né in politica interna né in politica estera; soprattutto in politica estera. Non dimentichiamo che il presidente Kennedy non è stato quello che definiamo un progressista in politica estera, anzi: era un cold warrior, un convinto “guerriero” della guerra fredda che in più occasioni – ricordo il Vietnam, ricordo Cuba – ha saputo fronteggiare fermamente l’Unione Sovietica come un qualsiasi altro presidente, soprattutto come il suo predecessore, il generale Eisenhower, che sicuramente veniva da una tradizione politica molto diversa da quella di Kennedy, in quanto repubblicano.

Un “crimine ignobile” che “ci lascia profondamente scioccati”. Con queste parole, Paolo VI accoglieva la notizia dell’uccisione a Dallas del presidente americano John F. Kennedy, il 22 novembre di 50 anni fa. Nelle parole di Papa Montini - che aveva incontrato Kennedy il 2 luglio del ’63 - sono sintetizzati i sentimenti prevalenti in tutto il mondo subito dopo la tragica morte di JFK. “Questo – ha affermato, dal canto suo, Barack Obama – è il giorno in cui celebrare l'impronta indelebile di Kennedy sulla nostra storia”. Il presidente Usa, che martedì aveva deposto una corona di fiori alla tomba di Kennedy ad Arlington, non è stato tuttavia alla commemorazione in programma ieri a Dallas. A mezzo secolo di distanza, nonostante il giudizio contrastante degli storici sulla sua amministrazione, Kennedy resta un esempio di leadership carismatica capace di generare speranza al di là dei confini della politica. Sul significato che assunse all’epoca l’uccisione di Kennedy e l’attualità della sua figura, Alessandro Gisotti ha intervistato Agostino Giovagnoli, docente di Storia Contemporanea all’Università Cattolica di Milano:RealAudioMP3

R. – È stato il primo presidente cattolico degli Stati Uniti e questo aveva costituito una sorta di grande novità, di grande speranza, di grande attesa per i cattolici di tutto il mondo. Paolo VI, che aveva incontrato Kennedy pochi mesi prima, rimase profondamente turbato da questo evento che sembrava in qualche modo incrinare quelle speranze dei primi anni ’60, all’interno dei quali si colloca anche l’elezione dello stesso Paolo VI e le speranza che hanno accompagnato l’inizio del suo Pontificato.

D. – Questo anche perché Giovanni XXIII, come poi Paolo VI, guardavano con simpatia all’azione dell’amministrazione Kennedy rispetto ai diritti civili dei neri. Lo stesso Paolo VI lo aveva detto, nel discorso a Kennedy, il 2 luglio del ‘63…

R. – Certamente. Proprio in un discorso del giugno ’63, pochi giorni prima di incontrare Paolo VI, Kennedy pronunciò un discorso molto importante sugli studenti neri dell’Alabama che erano stati esclusi dall’università. Fece un radiomessaggio nazionale, molto forte e molto incisivo, in difesa del diritto di questi ragazzi di iscriversi all’università. Si è criticato Kennedy perché è stato “uomo di parola e poco di fatti”, ma - a parte la brevità della sua presidenza - credo che bisogna rivalutare le parole, perché ci sono parole che sono più importanti dei fatti! Kennedy è stato un uomo che ha saputo dire parole importanti per interpretare le attese, le speranze e la volontà di cambiamento del mondo proprio nel suo tempo.

D. – Poi, ovviamente, c’è quella stagione breve, intensa e drammatica della crisi di Cuba, con questo rapporto a distanza con Giovanni XXIII, che per altro voleva ricevere Kennedy nel luglio del ’63 ma morì a giugno e ci fu il Conclave in mezzo... Fu regalata a Kennedy la Pacem in terris autografata da Papa Roncalli. Questo dono post mortem commosse anche molto lo stesso Kenney…

R. – Non c’è dubbio. La Pacem in terris è strettamente legata all’evento di Cuba. L’idea di scrivere un’Enciclica interamente dedicata al tema della pace nasce proprio dalla crisi di Cuba. E a questa crisi il Papa non fu estraneo: Giovanni XXIII fu coinvolto in quella crisi, fu coinvolto pubblicamente e le parole che egli disse per la pace sono note. Fu coinvolto anche per via diplomatica, perché proprio a nome di Kennedy fu contattata la Segreteria di Stato, e fu sollecitato l’intervento del Papa e quell’intervento ci fu. Dunque, forse, dobbiamo anche a Giovanni XXIII se poi la guerra non è scoppiata durante la crisi di Cuba. Credo che Kennedy fosse grato al Papa per questo suo intervento.

D. – Man mano che passano gli anni, escono documenti e le valutazioni degli storici si fa a volte più severo nei confronti dell’amministrazione Kennedy, anche se ovviamente il giudizio rimane sempre incompleto perché è una vita “incompiuta”, quindi anche politicamente “incompiuta”. Tuttavia, il mito, l’immagine di John Kennedy resta quasi intoccabile, intangibile nonostante revisionismi, scandali… Perché secondo lei?

R. – Perché credo che effettivamente Kennedy abbia rappresentato la voce della speranza. Non è solo merito suo, ovviamente… Ha però saputo interpretare un’epoca, un’attesa, una volontà di cambiamento che era molto forte. Naturalmente, il bilancio della presidenza Kennedy presenta luci ed ombre, ma questo è normale. Qualunque vicenda politica presenta luci ed ombre. Piuttosto, oggi vedo in atto un tentativo “minimalista” che è quello di banalizzare tutto: per cui non si parla tanto di Kennedy come uomo politico, ma della sua vita privata, i gossip… E’ un minimalismo che rispecchia un po’ i nostri tempi, tempi “avari di visioni” come diceva Giovanni Paolo II. Per questo, credo che ci faccia bene ricordare Kennedy, non per farne un mito ma per ricordare che si può anche non essere minimalisti ed avere grandi visioni.

Ultimo aggiornamento: 23 novembre







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