Le fragilità di chi ha patito il suicidio di un congiunto al centro di una speciale
Giornata
Si stima che per ogni suicidio ci siano almeno sei persone coinvolte nel lutto, con
conseguenze devastanti e una maggiore predisposizione a compiere a loro volta il gesto
estremo. Sono i cosiddetti survivors, i “sopravvissuti”: una popolazione ampia e variegata,
ma per lo più sconosciuta, che non sempre trova assistenza. Sensibilizzare su questa
tematica e fornire un aiuto concreto, è uno degli obiettivi del Servizio per la prevenzione
al suicidio dell’Ospedale romano Sant’Andrea guidato da Maurizio Pompili. In
occasione della Giornata internazionale dedicata ai survivors, Antonella Pilia
lo ha intervistato su una realtà che affligge anche i più piccoli:
R. – Ovviamente,
portandosi dietro un dramma così importante, possono anche loro ritenere il suicidio
una chiave di lettura per porre fine alla loro sofferenza che può divenire insopportabile.
Soprattutto, laddove non si può contare sulla comprensione dei servizi sociali e dei
servizi di assistenza alla salute.
D. – Quindi, c’è una diversità di trattamento
rispetto a persone colpite da altre tipologie di lutti…
R. - Ci sono sentimenti
molto forti che prevalgono. Per primo, la colpa: “Se solo avessi fatto questo o quest’altro,
forse avrei salvato la vita alla persona cara”; poi, c’è la rabbia, la necessità di
trovare un sollievo, le immagini ricorrenti dell’evento traumatico. Inoltre, un senso
di vergogna perché in qualche modo si è vissuta quell’esperienza del suicidio che
la società cerca sempre di nascondere. Poi, lo stigma, un marchio peggiorativo posto
su queste persone come se si avesse paura del contagio. Dunque, dall’esterno non c’è
la solidarietà. Infine, vi è la ricerca infinita dei perché si è arrivati a questo
dramma. Tutti questi elementi sono specifici del lutto riferito al suicidio e dovrebbero
essere trattati con massima consapevolezza anche da coloro che devono veicolare l’assistenza.
D.
– Quando ad affrontare questo trauma sono i bambini, cosa può succedere se manca la
presenza ed il sostegno dei genitori?
R. – Non poter contare su una coesione
familiare efficace, o sulla presenza di una figura genitoriale appropriata, rende
le cose estremamente più difficili. Molte volte i genitori non hanno quella maturità
affettiva, anche loro sono traumatizzati dagli eventi esterni. Risentono delle difficoltà
dei figli e non sanno apportare un “contenimento” affettivo. In questo caso, se il
bambino ha uno scompenso affettivo non riuscirà a superare quella difficoltà, non
riuscirà a guardare il domani con fiducia.
D. – A livello scientifico, la
fede può aiutare a superare un evento doloroso come la perdita di un caro?
R.
– Penso fermamente di sì. Credere è sicuramente un sollievo e una chiave di lettura
che altrimenti lascerebbe l’individuo in una situazione molto più disastrosa.
D.
– Che tipo di aiuto offrite a queste persone?
R. – Molte volte cercano una
sponda sicura sulla quale riversare la loro drammaticità. Ci raggiungono anche da
diverse regioni. Noi li ascoltiamo e forniamo risposte per i cari che hanno perso
un loro congiunto nel suicidio. È un momento di sollievo per poter essere compresi
e quindi essere anche avviati a percorsi di breve durata, ma di sostegno in cui si
rimane in contatto. Percorsi in cui loro stessi partecipano a manifestazioni - come
la Giornata internazionale dei survivors - e portano il loro contributo alla
prevenzione del suicidio.