2013-11-23 14:29:09

Clima: vertice di Varsavia lontano da un accordo. Stallo sui fondi per la riduzione di emissioni


Si chiude oggi a Varsavia il vertice sul clima delle Nazioni Unite. Si continua dunque a negoziare, anche se sembra sfumare l’ipotesi di un accordo-quadro in vista della conferenza di Parigi del 2015, nella quale dovrà essere varata la strategia per la riduzione dell'effetto serra che entrerà in vigore nel 2020. Permane, infatti, una spaccatura tra i Paesi europei e quelli in via di sviluppo sui finanziamenti per la riduzione delle emissioni di anidride carbonica. Per un’analisi delle ragioni che complicano il negoziato, Marco Guerra ha sentito Antonio Ballarin Denti, professore di Fisica dell’Ambiente all'Università Cattolica del Sacro Cuore:RealAudioMP3

R. - Ci sono due ragioni: una è di ordine strutturale, l’altra è legata alla contingenza della crisi. Partendo da quest’ultima, in questi ultimi cinque anni le disponibilità economiche dei Paesi occidentali si sono fortemente ridotte perché è aumentato il debito, è aumentato il deficit e perché al tempo stesso c’è una crisi finanziaria ed economica. Quindi un investimento di risorse per la cosiddetta “mitigazione” - ovvero il taglio delle emissioni che comporta dei sacrifici, degli investimenti da parte del settore industriale e dei trasporti - sta venendo meno e c’è una maggiore difficoltà a prendere degli accordi vincolanti e impegnativi. Il secondo motivo è che ci si sta accorgendo che un’azione concertata di ampio respiro, come richiederebbe il controllo dei fattori che regolano il clima - essenzialmente le sue emissioni nell’atmosfera - richiederebbe un’autorità di governo sovranazionale, e al punto in cui sono le cose, questa autorità manca palesemente. Le Nazioni Unite li possono mettere intorno ad un tavolo e discutere. Ma i singoli Paesi hanno interessi divergenti: i Paesi delle economie emergenti hanno interessi diversi da quelli dell’Europa che a sua volta ha interessi diversi dagli Stati Uniti. E quindi, se non c’è nessuno che impone una soluzione, l’accordo appare lontano.

D. - Lei conferma che c’è una spaccatura tra Paesi sviluppati che premono per accordi più stringenti e Paesi in via di sviluppo, che in sintesi dicono: “Voi avete inquinato per decenni. Adesso è il nostro momento di crescita…"

R. - Direi che sostanzialmente questo panorama che si trascina da Kyoto in poi è rimasto invariato. Paesi ed economie emergenti chiedono di poter recuperare il terreno perduto con una maggiore indulgenza verso di loro per ciò che riguarda le tecnologie e quindi la quantità di emissioni. C’è da dire, però, che c’è un aspetto positivo in questo quadro che sembrerebbe abbastanza sconfortante: in linea di principio tutti i Paesi sono d’accordo su due punti chiave. Il primo, che il clima sta realmente cambiando: ormai questo dato è universalmente accettato. Il secondo, che è l’uomo il maggiore responsabile di questa deriva del clima con le sue emissioni. Quindi di fronte a queste due evidenze, in qualche modo, tutti sono chiamati ad esercitare una responsabilità, che in linea di principio dichiarano, ma che nei fatti è difficile da concretizzare in azioni di governo.

D. - I cambiamenti climatici possono essere fermati o piuttosto ormai bisogna puntare ad un progressivo adattamento della società e dei territori a quelli che sembrano fenomeni sempre più frequenti …

R. - Il problema dell’adattamento diventa un problema centrale, ma non sostitutivo del problema della mitigazione, quindi della riduzione delle emissioni, e a questo punto un problema di emergenza che tocca soprattutto le aree più vulnerabili del pianeta: l’Africa con la desertificazione, le zone influenzate dai monsoni, l’ambiente montano come quello alpino … Tutte situazioni che richiedono misure di adattamento di tutti i fattori di vulnerabilità - l’ambiente naturale costruito, l’ambiente antropico, la salute dell’uomo, l’agricoltura - in modo che si trovino degli accorgimenti per fare i conti con un clima che comunque cambierà.







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