Iraq. Attentati a Baghdad e nel nord, 33 morti. Don Sacco: sperare è un dovere
Ennesima ondata di attentati in Iraq, a Baghdad e nel nord del Paese. Almeno 33 persone
sono rimaste uccise, 70 invece hanno riportato ferite più o meno gravi. Sette gli
attacchi nella capitale, per lo più con autobombe contro mercati e strade affollate.
Colpiti sia il quartiere a maggioranza sciita di Shaab che e quello a maggioranza
sunnita di Adhamiyah. A conferma della guerra settaria in atto nel Paese, anche in
vista delle prime elezioni politiche degli ultimi quattro anni. Sulla situazione in
atto in Iraq, Salvatore Sabatino ha intervistato Don Renato Sacco, di
Pax Christi Italia:
R. - Credo ci
sia davvero in atto una lotta di potere che usa la religione come copertura, quindi
abbiamo questi attacchi sunniti, sciiti, che poi non risparmiano anche chi non si
ritrova in queste categorie. Credo che la chiave di lettura sia una lotta senza confini,
una guerra vera e propria per il potere perché - non lo dimentichiamo - l’Iraq è un
Paese molto ricco di petrolio, ma non solo, e quindi questo potere viene diviso e
combattuto per la conquista all’ultimo sangue, nel senso letterale. Ne pagano il caro
prezzo le persone, le vittime innocenti.
D. - Le vittime innocenti, la popolazione
civile che vive una situazione drammatica: secondo lei, esiste ancora una speranza
tra la gente, o c’è solo disperazione in questo momento?
R. - La gente ormai
ne ha viste talmente tante… Se torniamo indietro dalla guerra con l’Iran, poi la Guerra
del Golfo, l’embargo, la Seconda Guerra del Golfo… di speranza non ne ha mai avuta
molta. Credo che per forza, per dovere, dobbiamo ancora coltivare la speranza. Credo
che la speranza sia quella di non dimenticare questa realtà che abbiamo ricordato
solo quando c’era la guerra, quando vendevamo le armi. Poi, come spesso succede, si
spengono i riflettori. Credo che la speranza si coltiva se si tiene viva l’attenzione
e se la comunità internazionale entra in questa situazione non per i propri interessi,
ma per aiutare a trovare un bene comune. Dobbiamo riconoscerlo, quasi sempre la comunità
internazionale è entrata come parte coinvolta o con la guerra o con la vendita di
armi o con gli interessi del petrolio, quindi non cercando il bene comune. Questo
spegne la speranza, per cui poi molti vogliono scappare, i cristiani soprattutto e
non dimentichiamo che lì vicino c’è la Siria. È un quadro problematico, ma credo che
non dobbiamo perdere la speranza. E la speranza dipende anche da noi, se vogliamo
guadagnarci con l’Iraq o vogliamo invece far guadagnare loro una speranza di vita.
D.
- A proposito dei cristiani in Iraq, negli anni abbiamo visto un esodo massiccio di
cristiani verso altri Paesi. Nel 2003 erano un milione, oggi sono meno di 500 mila.
Il patriarca Sako ha scritto una lettera per invitare i cristiani a tornare nel Paese,
ed è un enorme atto di coraggio…
R. - Sì, lo sentivo anche incontrando tantissime
comunità, soprattutto a nord. Molti mi chiedevano di essere messi nella mia valigia
per scappare. Dall’altra parte, però, molti dicevano: “Noi vogliamo restare”. E i
vescovi, i pastori, dicevano: “L’unica speranza per l’Iraq è che il Paese resti multireligioso,
multietnico”. E la presenza dei cristiani non è solo una garanzia per loro, per l’Iraq,
ma anche un po’ per tutta l’area. Se passasse l’idea della pulizia etnica in Iraq
o in Siria o da altre parti - lo stiamo vedendo - sarebbe un messaggio, ma sarebbe
anche un crollo grande di una possibilità di vita. Per cui, davvero, la scelta dell’amico
Louis Sako di scrivere e di ritornare è una scelta di coraggio e di speranza per dire:
“Noi siamo qui. Tornate anche voi e insieme lavoriamo, lottiamo”. E, come direbbe
Papa Francesco, “per un futuro comune di pace”.