Operazione Colomba nei Territori occupati: una presenza che sostiene scelte di nonviolenza
Prosegue in Cisgiordania l’impegno ormai decennale dei volontari di Operazione Colomba,
il Corpo Nonviolento di Pace della Comunità Papa Giovanni XXIII. Dai 4 agli 8 i volontari
che risiedono stabilmente in un piccolo villaggio di quel territorio e che, oltre
alle attività quotidiane di sostegno alla popolazione locale hanno promosso, di recente,
un incontro sul dialogo e la riconciliazione. Ma che cosa c’è alle origini di Operazione
Colomba? Adriana Masotti lo ha chiesto a Marco Ramigni, responsabile
del progetto in corso nei Territori occupati:
R. – Alle origini
c’è una volontà, che nasce sicuramente dalla Comunità Papa Giovanni, di condividere
la vita con gli ultimi. Operazione Colomba individua in questi ultimi le vittime
dei conflitti armati. Nasce nel 1992 con la guerra in Jugoslavia.
D. – Come
siete arrivati, invece, nei Territori Occupati?
R. – Siamo arrivati su richiesta
della comunità locale e dal 2004 Operazione Colombaè nel villaggio di At-Tuwani,
che si trova nelle colline a sud di Hebron, e quindi in territorio palestinese, però
sotto controllo civile e militare israeliano. Poco distante dal villaggio si trovano
due insediamenti israeliani, che sono abitati da coloni nazional-religiosi. Gli insediamenti
sono in continua espansione e annettono terre dei vicini villaggi palestinesi. La
cosa straordinaria è che i pastori delle colline a sud di Hebron hanno scelto di rispondere
a queste violenze con metodi non violenti e si sono riuniti nel “Comitato popolare
delle colline a sud di Hebron”. Questo comporta anche vedere al villaggio, per esempio,
tanti israeliani che sostengono la causa di questi pastori. Per cui è facile, non
so, vedere nel villaggio israeliani e palestinesi che mangiano assieme.
D.
– Ogni anno voi organizzate localmente un workshop, un incontro, sui temi del dialogo
e della non violenza…
R. – L’ambito in cui nasce il workshop è una richiesta
degli stessi pastori palestinesi. Hanno fatto questa scelta non violenta e ci dicono:
“Una volta all’anno, ci aiutate a nutrire questa non violenza?”. Quindi noi portiamo
lì delle persone esterne che hanno avuto un’esperienza personale di dialogo e di riconciliazione.
Quest’anno sono venuti due ospiti legati alla nostra storia italiana, agli Anni di
Piombo. E’ venuta una persona che ha commesso delle violenze e il figlio di un vittima
della violenza terroristica.
D. – Per dire che cosa?
R. – Per portare
una testimonianza che ha attraversato, intanto, il profondissimo dolore personale
ed è arrivata a raggiungere il dolore dell’altro. In particolare per chi ha partecipato
ad un gruppo terroristico, si è trattato di una testimonianza di rottura col passato:
il fatto di testimoniare che la lotta armata non è servita a cambiare il mondo in
meglio. Mentre l’altra testimonianza è stata quella di combattere un odio lacerante
e riuscirsi a spingere più in là, a protendersi con assoluto coraggio verso l’incontro
e il confronto con chi aveva ucciso il proprio padre.
D. – Quali sono le altre
attività e iniziative che i volontari di Operazione Colombaportano avanti
nella quotidianità?
R. – Accompagnano i pastori palestinesi nelle loro terre,
dove c’è il rischio di essere attaccati e il fatto che ci sia la presenza di volontari
internazionali fa diminuire il livello di violenza. Dopodiché monitorano una scorta
israeliana che accompagna a scuola dei bambini palestinesi: questi bambini palestinesi,
in passato, erano stati attaccati dai coloni israeliani e noi controlliamo che la
scorta faccia bene il suo lavoro. Monitoriamo poi tutte le situazioni dal punto di
vista dei diritti umani e in più – dove è possibile – cerchiamo di mettere dei semi
che magari in un futuro si potranno trasformare in un dialogo tra le parti.
D.
– Che speranze avete che il vostro lavoro possa servire davvero a una pace futura?
R.
– Abbiamo delle speranze concrete, perché vediamo nel piccolo dei segni di pace. Io
ho ben presente quali siano le esigenze di questi pastori palestinesi che dicono:
“Noi tutto quello che vogliamo è poter vivere in pace qua, poter coltivare le nostre
terre”. Da parte israeliana è necessario prima un processo di riconoscimento verso
i palestinesi. Gli israeliani che noi vediamo venire al villaggio, quando vengono,
scoprono che quei palestinesi non sono dei nemici per loro. Ecco, prima di questo
passaggio io vedo con fatica la possibilità di una pace duratura.