10 anni fa il sanguinoso attentato di Nassiriya. Il presidente Napolitano: vittime
di vile barbarie
“Loro sono caduti per la pace, sono nella pace”. Sono le parole con cui l’arcivescovo
ordinario militare per l’Italia, mons. Santo Marcianò, ha ricordato durante una Messa,
ieri nella Basilica dell’Ara Coeli a Roma, i caduti nell’attentato di Nassiriya, in
Iraq, il 12 novembre del 2003. "Nelle missioni di pace - ha aggiunto mons. Marcianò
- i militari portano avanti opere di difesa, ricostruzione, lotta alla povertà, alla
discriminazione". "L'esperienza tuttavia - ha proseguito - insegna che non sempre
le opere di giustizia sono perseguite con metodologia di pace". Francesca Sabatinelli
ha intervistato il generale dell'esercito Fabio Mini, ex comandante della
Kfor in Kosovo ed ex capo di Stato maggiore del fronte Sud della Nato:
R. – E’ vero
che quasi tutte le grandi operazioni militari di oggi sono tutte operazioni all’insegna
dell’umanità, all’insegna della pace; ma poi, sul terreno e sul campo, ci sono anche
altre situazioni. Una missione, in genere, parte con degli scopi ben determinati e
dovrebbe poi svolgersi secondo alcuni canoni, secondo un’etica militare ma soprattutto
anche secondo i bisogni delle popolazioni che si vanno ad incontrare. Nemici ed amici,
perché anche i nemici hanno i loro diritti, se non altro per il Diritto internazionale.
Questo è il punto di partenza. In realtà, negli ultimi 20 anni noi abbiamo assistito
ad operazioni cosiddette di pace che in realtà erano guerre mascherate. Quello che
si incontra sul terreno non è l’operazione di pace, che tra l’altro non andrebbe neanche
fatta dai militari, non è che spetti ai soldati ma, a prescindere da questo, non lo
è perché i militari si trovano nelle condizioni di combattere, di affrontare degli
avversari, di difendere determinate cose per cui se queste azioni sono poi azioni
di giustizia, va bene, ma non credo che sia sempre così.
D. – Ogni occasione,
che sia un lutto o che sia una ricorrenza, diventa un momento per chiedere da parte
di alcune componenti politiche, il rientro dei militari italiani dalle missioni, un
esempio fra tutti: dall’Afghanistan. Secondo lei, questo, anche politicamente, ha
un senso?
R. – Queste operazioni, di questi che approfittano di ogni ricorrenza
per tirare fuori questi motivi e soltanto nelle ricorrenze lo fanno, e non quando
partono le missioni, nelle sedi appropriate, questa è un’altra di quelle storture
che vengono perpetrate continuamente. Queste celebrazioni servono, ma devono servire
soprattutto per modificare gli atteggiamenti. Quando invece queste servono soltanto
per denigrare o comunque per liquidare così, semplicemente, la questione delle missioni,
è una questione strumentale che non va accettata. Una cosa che non viene mai fatta,
e bisognerebbe farla periodicamente, a prescindere dalle scadenze di soldi o no, è
quella di fare i consuntivi, i bilanci. Di missioni come quelle in Afghanistan, o
in Iraq, che durano anni in questa maniera, io non ho mai sentito, né da militare
ma neanche mai da cittadino, un consuntivo, un bilancio. E il bilancio va fatto nella
differenza tra prima e oggi: quando siamo andati, la situazione com’era? Adesso che
sono dieci anni che siamo lì, la situazione com’è? Se è ‘A’ più qualche cosa, su quel
“più” facciamo i conti di successo o di insuccesso; se invece siamo al “meno”, non
si capisce, allora sì che bisogna discutere se continuare ad andare avanti con la
missione, perché probabilmente è diventata inutile, profondamente ingiusta e un onere
insostenibile per i cittadini.
D. – Questa descrizione è attinente proprio
alla missione in Afghanistan?
R. – Eh, a tutte le missioni, a tutte le missioni.
A partire da quelle delle Nazioni Unite, che dal 1948 hanno una missione nel Sinai,
così come ci sono soldati in Siria dal 1972, in Libano dal 1974! Quando ci sono queste
missioni che durano all’infinito e si va avanti per stanchezza, ebbene, bisogna veramente
interrogarsi, bisogna fare in modo che qualche risultato venga fuori. Altrimenti si
perpetua la guerra: non è che si perpetua l’umanitarismo o la pace.
D. – Lei
prima diceva: da militare, da cittadino, non ho mai visto fare un consuntivo. Ma
ci sono delle missioni che hanno le caratteristiche giuste? Si diceva prima: difficile
parlare di pace, difficile parlare di missione umanitaria se affidata ai militari,
ma ce ne sono con le caratteristiche che danno un senso allo svolgimento?
R.
– Le caratteristiche del senso della missione stanno proprio negli scopi iniziali.
Dopodiché se hanno un senso successivo, devono essere calibrati in base ai risultati.
Già il fatto che una missione di carattere militare, cioè che prevede l’impegno dei
militari armati, che dura tanto e che non ha prospettive di soluzione nel futuro,
già questo come minimo deve far suonare qualche campanello d’allarme. Se lo strumento
non funziona, oppure nonostante lo strumento sia giusto e quello più efficiente possibile,
i risultati poi non si conseguono, questo significa che bisogna cambiare strategia.
Quello che da’ fastidio soprattutto, e che è un insulto proprio per i militari che
sono in missione, è che a loro viene richiesto comunque di andare senza neanche capire
se stanno facendo qualcosa che porti ad un progresso oppure se vanno lì soltanto per
ignavia di quelli che li mandano. Il senso di smarrimento e di inutilità per i soldati
e per le missioni tutte, viene esclusivamente da questo. La domanda che si fanno tutti
non è tanto “che cosa ci stiamo a fare?”, ma: “Quello che stiamo facendo, ha un senso
per il progresso della missione?”.
Ricordiamo ora quanto accadde dieci anni,
a Nassiriya quando un camion sfondò la recinzione della sede della missione Msu (Multinational
Specialized Unit) dei carabinieri, aprendo un varco ad un'autobomba che esplose subito
dopo. Morirono 12 militari dell'Arma, cinque militari dell'Esercito, due civili italiani
e 7 iracheni. Il presidente Napolitano in un messaggio parla di "efferato, gravissimo
attentato", e di vittime di "una inaccettabile e vile barbarie". "I militari e i civili
che, anche a rischio della vita, operano nelle aree di crisi, in tante travagliate
regioni del mondo - ha continuato Napolitano - sono l'espressione di un paese che
crede nella necessita' di uno sforzo comune per la sicurezza e la stabilita'".
Salvatore Sabatino ha intervistato padre Mariano Asunis, cappellano
militare della Brigata Sassari:
R. - Ricordo
molto bene l’accaduto. Ricordo anche il suono particolare di questa esplosione che
era diverso dalle altre esplosioni, perché eravamo lì e spesso e volentieri si facevano
esplodere le armi che venivano prese dalle case dei vari ribelli. Questa esplosione
aveva un rumore particolare, poi quel fumo rivelava che era successo qualcosa di straordinario,
di grave. Ma nonostante tutto credo che bisogna ricordare questo avvenimento particolare,
che nessuno mai avrebbe sospettato potesse accadere, soprattutto agli italiani che
sono stati accolti con il cuore grande, con le braccia aperte per il bene che compivano
come il buon samaritano. E lì c’è stato un gruppetto composto di persone che veniva
da fuori che ha causato questo dramma. Allora lì devi dare una risposta; e la risposta
è quella della fede.
D. - Lei dice: “Noi siamo andati in Iraq per dare una
speranza alla popolazione civile -che stava attraversando un momento difficilissimo
ovviamente - per dare la vita, invece c’è piombato addosso la morte”. Che tipo di
risposte ha dato poi ai militari che si sono trovati in questa situazione?
R.
- Credo che la risposta l’abbiamo presa soprattutto dalla Bibbia. Non abbiamo usato
i classici libri liturgici, ma abbiamo dato risposte per quello che ci hanno insegnato;
“Abramo, vai ed esci dalla tua terra, e va' dove io ti indicherò”. Nassiriya è Ur
dei Caldei, è la terra di Abramo e perciò noi siamo andati nella terra di Abramo con
lui che poi ci unisce nelle tre religioni. Noi siamo stati mandati - via Ur dei Caldei
- a Nassiriya per portare la pace. Poi naturalmente, con le bandiere, abbiamo dovuto
riportare i nostri cari in Italia. Ma è stato un abbraccio forte da parte dell’Italia
e lasciatemelo dire - visto che siamo a Radio Vaticana - anche della Chiesa, la Chiesa
Ordinariato militare, questa Chiesa particolare nelle Chiesa universale è stata una
luce di speranza! Voglio ricordare a tutti che sono stati offerti 50 mila rosari da
parte dell’Ordinariato militare quando sono arrivate le salme, e che in quella notte
non si faceva altro che pregare a Maria, la Madre per eccellenza.
D. - La Vergine
Maria, cui lei si è rivolto durante la benedizione di quelle bare in partenza per
l’Italia, lo ricordiamo tutti. Lei chiese che fosse la voce di una mamma a rispondere
a quell’appello. La figura della mamma è ovviamente anche la figura della Madonna
…
R. - Penso che sia comune a tutti conoscere quel passo del Vangelo, quando
Gesù, al termine della sua vita, dalla Croce vede la mamma e la chiama “Donna”, e
presenta Giovanni come suo figlio. tutti noi siamo Giovanni. Ed è per questo che ho
voluto fosse una donna a rispondere al proprio nome, così come ognuno ha lasciato
la propria mamma, la propria sposa, la propria figlia, così fosse Maria donna per
eccellenza, madre di tutti. Abbiamo la certezza che quello che è stato distrutto dagli
uomini è accolto da Dio.
R. - Le tante mamme i tanti figli, le mogli di quei
caduti le avranno sicuramente chiesto un aiuto di fede per poter comprendere e gestire
un dolore così forte. Lei cosa ha risposto a chi le ha chiesto: ” Perché è accaduto,
Dio dov’era in quel momento?”.
R. - Io ho risposto, perché anche io vivo nella
fede, dicendo: “Anche io sono un uomo prima di essere un religioso, un frate, un sacerdote.
Anche io ho avuto dei momenti di dubbio, così come li ha avuti Gesù: “Padre se possibile
allontana da me questo calice!”. Ma ho insegnato quello che io ho dentro; per me l’insegnamento
più bello è quello delle due sorelle: le due donne che incontrano Gesù dove è morto
Lazzaro e dicono: ”Io so che mio fratello risorgerà nell’ultimo giorno”. Ecco allora
cosa insegni? Che la vita non termina, la vita viene donata. Il sangue irrorato dei
martiri, porta altra vita. E allora voglio concludere con questo esempio. Non sono
stato io forse a portare fede in queste famiglie, ma sono stati loro, con il loro
esempio e con la donazione dei loro cari che hanno aumentato la fede in me.