2013-11-12 17:09:59

10 anni fa il sanguinoso attentato di Nassiriya. Il presidente Napolitano: vittime di vile barbarie


“Loro sono caduti per la pace, sono nella pace”. Sono le parole con cui l’arcivescovo ordinario militare per l’Italia, mons. Santo Marcianò, ha ricordato durante una Messa, ieri nella Basilica dell’Ara Coeli a Roma, i caduti nell’attentato di Nassiriya, in Iraq, il 12 novembre del 2003. "Nelle missioni di pace - ha aggiunto mons. Marcianò - i militari portano avanti opere di difesa, ricostruzione, lotta alla povertà, alla discriminazione". "L'esperienza tuttavia - ha proseguito - insegna che non sempre le opere di giustizia sono perseguite con metodologia di pace". Francesca Sabatinelli ha intervistato il generale dell'esercito Fabio Mini, ex comandante della Kfor in Kosovo ed ex capo di Stato maggiore del fronte Sud della Nato:RealAudioMP3

R. – E’ vero che quasi tutte le grandi operazioni militari di oggi sono tutte operazioni all’insegna dell’umanità, all’insegna della pace; ma poi, sul terreno e sul campo, ci sono anche altre situazioni. Una missione, in genere, parte con degli scopi ben determinati e dovrebbe poi svolgersi secondo alcuni canoni, secondo un’etica militare ma soprattutto anche secondo i bisogni delle popolazioni che si vanno ad incontrare. Nemici ed amici, perché anche i nemici hanno i loro diritti, se non altro per il Diritto internazionale. Questo è il punto di partenza. In realtà, negli ultimi 20 anni noi abbiamo assistito ad operazioni cosiddette di pace che in realtà erano guerre mascherate. Quello che si incontra sul terreno non è l’operazione di pace, che tra l’altro non andrebbe neanche fatta dai militari, non è che spetti ai soldati ma, a prescindere da questo, non lo è perché i militari si trovano nelle condizioni di combattere, di affrontare degli avversari, di difendere determinate cose per cui se queste azioni sono poi azioni di giustizia, va bene, ma non credo che sia sempre così.

D. – Ogni occasione, che sia un lutto o che sia una ricorrenza, diventa un momento per chiedere da parte di alcune componenti politiche, il rientro dei militari italiani dalle missioni, un esempio fra tutti: dall’Afghanistan. Secondo lei, questo, anche politicamente, ha un senso?

R. – Queste operazioni, di questi che approfittano di ogni ricorrenza per tirare fuori questi motivi e soltanto nelle ricorrenze lo fanno, e non quando partono le missioni, nelle sedi appropriate, questa è un’altra di quelle storture che vengono perpetrate continuamente. Queste celebrazioni servono, ma devono servire soprattutto per modificare gli atteggiamenti. Quando invece queste servono soltanto per denigrare o comunque per liquidare così, semplicemente, la questione delle missioni, è una questione strumentale che non va accettata. Una cosa che non viene mai fatta, e bisognerebbe farla periodicamente, a prescindere dalle scadenze di soldi o no, è quella di fare i consuntivi, i bilanci. Di missioni come quelle in Afghanistan, o in Iraq, che durano anni in questa maniera, io non ho mai sentito, né da militare ma neanche mai da cittadino, un consuntivo, un bilancio. E il bilancio va fatto nella differenza tra prima e oggi: quando siamo andati, la situazione com’era? Adesso che sono dieci anni che siamo lì, la situazione com’è? Se è ‘A’ più qualche cosa, su quel “più” facciamo i conti di successo o di insuccesso; se invece siamo al “meno”, non si capisce, allora sì che bisogna discutere se continuare ad andare avanti con la missione, perché probabilmente è diventata inutile, profondamente ingiusta e un onere insostenibile per i cittadini.

D. – Questa descrizione è attinente proprio alla missione in Afghanistan?

R. – Eh, a tutte le missioni, a tutte le missioni. A partire da quelle delle Nazioni Unite, che dal 1948 hanno una missione nel Sinai, così come ci sono soldati in Siria dal 1972, in Libano dal 1974! Quando ci sono queste missioni che durano all’infinito e si va avanti per stanchezza, ebbene, bisogna veramente interrogarsi, bisogna fare in modo che qualche risultato venga fuori. Altrimenti si perpetua la guerra: non è che si perpetua l’umanitarismo o la pace.

D. – Lei prima diceva: da militare, da cittadino, non ho mai visto fare un consuntivo.
Ma ci sono delle missioni che hanno le caratteristiche giuste? Si diceva prima: difficile parlare di pace, difficile parlare di missione umanitaria se affidata ai militari, ma ce ne sono con le caratteristiche che danno un senso allo svolgimento?

R. – Le caratteristiche del senso della missione stanno proprio negli scopi iniziali. Dopodiché se hanno un senso successivo, devono essere calibrati in base ai risultati. Già il fatto che una missione di carattere militare, cioè che prevede l’impegno dei militari armati, che dura tanto e che non ha prospettive di soluzione nel futuro, già questo come minimo deve far suonare qualche campanello d’allarme. Se lo strumento non funziona, oppure nonostante lo strumento sia giusto e quello più efficiente possibile, i risultati poi non si conseguono, questo significa che bisogna cambiare strategia. Quello che da’ fastidio soprattutto, e che è un insulto proprio per i militari che sono in missione, è che a loro viene richiesto comunque di andare senza neanche capire se stanno facendo qualcosa che porti ad un progresso oppure se vanno lì soltanto per ignavia di quelli che li mandano. Il senso di smarrimento e di inutilità per i soldati e per le missioni tutte, viene esclusivamente da questo. La domanda che si fanno tutti non è tanto “che cosa ci stiamo a fare?”, ma: “Quello che stiamo facendo, ha un senso per il progresso della missione?”.

Ricordiamo ora quanto accadde dieci anni, a Nassiriya quando un camion sfondò la recinzione della sede della missione Msu (Multinational Specialized Unit) dei carabinieri, aprendo un varco ad un'autobomba che esplose subito dopo. Morirono 12 militari dell'Arma, cinque militari dell'Esercito, due civili italiani e 7 iracheni. Il presidente Napolitano in un messaggio parla di "efferato, gravissimo attentato", e di vittime di "una inaccettabile e vile barbarie". "I militari e i civili che, anche a rischio della vita, operano nelle aree di crisi, in tante travagliate regioni del mondo - ha continuato Napolitano - sono l'espressione di un paese che crede nella
necessita' di uno sforzo comune per la sicurezza e la stabilita'". Salvatore Sabatino ha intervistato padre Mariano Asunis, cappellano militare della Brigata Sassari: RealAudioMP3

R. - Ricordo molto bene l’accaduto. Ricordo anche il suono particolare di questa esplosione che era diverso dalle altre esplosioni, perché eravamo lì e spesso e volentieri si facevano esplodere le armi che venivano prese dalle case dei vari ribelli. Questa esplosione aveva un rumore particolare, poi quel fumo rivelava che era successo qualcosa di straordinario, di grave. Ma nonostante tutto credo che bisogna ricordare questo avvenimento particolare, che nessuno mai avrebbe sospettato potesse accadere, soprattutto agli italiani che sono stati accolti con il cuore grande, con le braccia aperte per il bene che compivano come il buon samaritano. E lì c’è stato un gruppetto composto di persone che veniva da fuori che ha causato questo dramma. Allora lì devi dare una risposta; e la risposta è quella della fede.

D. - Lei dice: “Noi siamo andati in Iraq per dare una speranza alla popolazione civile -che stava attraversando un momento difficilissimo ovviamente - per dare la vita, invece c’è piombato addosso la morte”. Che tipo di risposte ha dato poi ai militari che si sono trovati in questa situazione?

R. - Credo che la risposta l’abbiamo presa soprattutto dalla Bibbia. Non abbiamo usato i classici libri liturgici, ma abbiamo dato risposte per quello che ci hanno insegnato; “Abramo, vai ed esci dalla tua terra, e va' dove io ti indicherò”. Nassiriya è Ur dei Caldei, è la terra di Abramo e perciò noi siamo andati nella terra di Abramo con lui che poi ci unisce nelle tre religioni. Noi siamo stati mandati - via Ur dei Caldei - a Nassiriya per portare la pace. Poi naturalmente, con le bandiere, abbiamo dovuto riportare i nostri cari in Italia. Ma è stato un abbraccio forte da parte dell’Italia e lasciatemelo dire - visto che siamo a Radio Vaticana - anche della Chiesa, la Chiesa Ordinariato militare, questa Chiesa particolare nelle Chiesa universale è stata una luce di speranza! Voglio ricordare a tutti che sono stati offerti 50 mila rosari da parte dell’Ordinariato militare quando sono arrivate le salme, e che in quella notte non si faceva altro che pregare a Maria, la Madre per eccellenza.

D. - La Vergine Maria, cui lei si è rivolto durante la benedizione di quelle bare in partenza per l’Italia, lo ricordiamo tutti. Lei chiese che fosse la voce di una mamma a rispondere a quell’appello. La figura della mamma è ovviamente anche la figura della Madonna …

R. - Penso che sia comune a tutti conoscere quel passo del Vangelo, quando Gesù, al termine della sua vita, dalla Croce vede la mamma e la chiama “Donna”, e presenta Giovanni come suo figlio. tutti noi siamo Giovanni. Ed è per questo che ho voluto fosse una donna a rispondere al proprio nome, così come ognuno ha lasciato la propria mamma, la propria sposa, la propria figlia, così fosse Maria donna per eccellenza, madre di tutti. Abbiamo la certezza che quello che è stato distrutto dagli uomini è accolto da Dio.

R. - Le tante mamme i tanti figli, le mogli di quei caduti le avranno sicuramente chiesto un aiuto di fede per poter comprendere e gestire un dolore così forte. Lei cosa ha risposto a chi le ha chiesto: ” Perché è accaduto, Dio dov’era in quel momento?”.

R. - Io ho risposto, perché anche io vivo nella fede, dicendo: “Anche io sono un uomo prima di essere un religioso, un frate, un sacerdote. Anche io ho avuto dei momenti di dubbio, così come li ha avuti Gesù: “Padre se possibile allontana da me questo calice!”. Ma ho insegnato quello che io ho dentro; per me l’insegnamento più bello è quello delle due sorelle: le due donne che incontrano Gesù dove è morto Lazzaro e dicono: ”Io so che mio fratello risorgerà nell’ultimo giorno”. Ecco allora cosa insegni? Che la vita non termina, la vita viene donata. Il sangue irrorato dei martiri, porta altra vita. E allora voglio concludere con questo esempio. Non sono stato io forse a portare fede in queste famiglie, ma sono stati loro, con il loro esempio e con la donazione dei loro cari che hanno aumentato la fede in me.







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