Sevizie e torture contro i profughi eritrei, arrestati i colpevoli. La denuncia della
Dda di Palermo
Sequestrati, percossi, segregati. E’ ciò che hanno subito i sopravvissuti al naufragio
al largo di Lampedusa il 3 ottobre scorso, quando morirono 366 persone. Si tratta
di eritrei rimasti intrappolati nella rete di un’organizzazione criminale transnazionale,
dedita al traffico di esseri umani. Due gli arresti condotti dalla direzione distrettuale
antimafia di Palermo: si tratta di un somalo, figura importante in seno all’organizzazione,
e di un palestinese. Alcuni risultati delle indagini sono stati illustrati ieri, a
Palermo dagli inquirenti, tra loro il procuratore aggiunto di Palermo, Maurizio
Scalia. Francesca Sabatinelli lo ha intervistato:
R. - Dalle nostre
indagini è emersa l’esistenza di un’organizzazione transnazionale che si occupava
di sequestrare nel deserto tra il Sudan e la Libia i cittadini eritrei che andavano
verso la Libia per tentare di arrivare a Lampedusa. Venivano sequestrati e portati
in un centro di raccolta, che io oserei dire più un campo di concentramento, perché
lì venivano trattenuti non solo in attesa del pagamento di somme di denaro - circa
3.500 dollari a persona - ma venivano sottoposti a un trattamento disumano.
D.
- Dalle vostre indagini risulta che le persone che sono state condotte in questo campo
abbiano subito dei trattamenti violentissimi, i profughi hanno raccontato di veri
e propri orrori…
R. - Veniva calpestata la dignità di questi soggetti, perché
venivano sottoposti a sevizie e torture di tutti i tipi, con l’uso anche di manganelli.
Venivano legati con la testa in giù e in piedi in alto e colpiti con mezzi contundenti,
e tutte le donne di questo gruppo sono state violentate, qualcuna anche giovanissima.
Successivamente, al momento del pagamento di questo denaro, gli stessi venivano caricati
su dei mezzi e portati vicino Tripoli, dove veniva richiesto loro il pagamento di
altri 1.500 dollari a persona e quindi caricati sulle imbarcazioni. E questi in particolare
facevano parte di quel gruppo di persone che è poi stato oggetto dei tragici fatti
del 3 ottobre. Insomma è molto sintetico quello che sto dicendo, a tutto questo ci
si è arrivati attraverso l’identificazione da parte degli eritrei di un cittadino
somalo che era sbarcato a Lampedusa circa 20 giorni dopo il fatto e abbiamo proceduto
a un provvedimento di fermo.
D. - Questo cittadino somalo è stato arrestato
assieme ad un palestinese…
R. - Sì, che è stato riconosciuto da cittadini
siriani con riferimento ad un altro sbarco e ad un’altra organizzazione, che agisce
pure in Libia. Secondo valutazioni delle Forze di Polizia sono emigrate diverse centinaia
di migliaia di persone dalla Siria e si presume che circa 60 mila si trovino in Libia.
Qui c’è un’altra organizzazione sulla quale stiamo lavorando.
D. - Chi sono
queste persone e che tipo di collocazione hanno in questa organizzazione?
R
- Il somalo ha sicuramente funzioni di capo di questa organizzazione e infatti abbiamo
contestato l’associazione per delinquere. Si è occupato sia del sequestro del deserto
tra il Sudan e la Libia di queste persone, sia della detenzione in questi centri di
raccolta in Libia, sia del trasporto successivo a Tripoli. Mentre il soggetto palestinese
era un terminale a cui i siriani si rivolgevano a Tripoli per l’organizzazione del
viaggio nei barconi.
D. - Ma voi ritenete che ci siano anche dei collegamenti
con la criminalità italiana, per quello che lei mi può dire?
R. - C’è una parte
dell’indagine che è coperta da segreto. Riteniamo, però, che possa esserci un collegamento
cioè, sicuramente, hanno dei punti di appoggio, perché per loro l’Italia è un punto
di passaggio, perché poi vogliono andare nei Paesi del Nord Europa. Ci sono dei collegamenti
sui quali stiamo lavorando. Sono indagini difficilissime! In Italia riusciamo a muoverci
abbastanza agevolmente, ma le indagini sugli altri soggetti che abbiamo individuato
e che sono attualmente in Libia, con la situazione politica abbastanza fluida che
c’è in quel Paese, abbiamo diverse difficoltà a collegamenti attraverso le forze di
Polizia o a fare eventualmente rogatorie. Anche le indagini in Italia sono estremamente
difficili, perché la legge ci impone di sentire tutti gli eritrei con gli avvocati,
perché sono tutti indagati per il reato di immigrazione clandestina, che ha causato
tante polemiche. Quindi quando noi li sentiamo come testimoni di questi fatti, non
li possiamo più sentire come testimoni, ma come indagati di procedimento connesso
e quindi li abbiamo dovuti sentire con l’avvocato. In funzione di un eventuale dibattimento
dovremo cristallizzare verosimilmente le dichiarazioni da questi rese in incidenti
probatori davanti al Gip e quindi tutto è reso abbastanza complicato.
D. -
Lei ha avuto modo di avvicinare ovviamente le persone superstiti di questo naufragio
e che hanno subito queste violenze: come stanno?
R. - Mi dice il collega che
è andato insieme ai funzionari della Squadra Mobile a sentire, che evidentemente c’è
una situazione di sovraffollamento dei centri, che sfugge alle nostre competenze,
perché noi ci occupiamo delle indagini. Questi sono problemi dell’autorità politica
e dell’autorità amministrativa, nei quali noi non possiamo entrare. Credo che si stia
tentando di fare il massimo. Sicuramente il bel tempo che abbiamo qui in questo momento
favorisce questi sbarchi e quindi ovviamente c’è una situazione di emergenza.