La sfida del Burundi, tra sviluppo economico e tensioni sociali
In Burundi, persistono tensioni sociali e politiche e violazioni dei diritti umani.
E’ uno dei Paesi più poveri al mondo, ma continua a registrare un’altissima crescita
demografica e si distingue in Africa per l’autosufficienza agricola. Può questo piccolo
Stato passare da Paese sottosviluppato a Paese emergente? Elvira Ragosta lo
ha chiesto ad Angelo Inzoli, specializzato in Teologia e Scienze delle popolazioni
e autore del libro “Lo sviluppo economico del Burundi e i suoi attori”, recentemente
pubblicato da l’Harmattan:
R. - Penso di
sì in generale, nel senso che l’Africa ha un potenziale economico incredibile e anche
questo piccolo Paese. Chiaramente, però, a condizione che possa risolvere i suoi problemi
strutturali.
D. - Nonostante la guerra civile sia finita nel 2006, dal Burundi
arrivano notizie di tensioni sociali. Secondo lei, esiste il pericolo che una nuova
guerra possa scoppiare?
R. - Purtroppo, in tutte queste regioni la stabilità
è sempre relativa. In realtà, la cultura dello scontro politico è ancora molto, molto
dipendente in parte dal modello precedente - cioè chi va al potere pensa di diventare
il padrone del Paese - e dall’altra il metodo della lotta politica rimane un po’ quello
che si è sperimentato durante gli anni della guerra e quindi il nemico politico rischia
di diventare un avversario e se io ho delle armi, lo posso eliminare anche fisicamente.
D. - Qual è stato il ruolo delle Chiese cristiane, in particolare di quella
cattolica nel periodo coloniale?
R. - La Chiesa cattolica ha avuto un ruolo
che possiamo definire in parte di difesa delle popolazioni contro gli abusi delle
politiche coloniali. Un ruolo di assistenza delle popolazioni: ai missionari era affidata
sostanzialmente la gestione delle scuole, la gestione dei sistemi sanitari e poi anche
un ruolo di collaborazione anche con il sistema coloniale, perché ricordiamoci che
- ad esempio - l’introduzione della cultura di caffè avviene proprio anche grazie
allo sforzo dei missionari.
D. - Dopo la colonizzazione - con la presenza
di nuovi attori internazionali, quali la Banca Mondiale - il contributo della Chiesa
cattolica è cambiato?
R. - E’ cambiato nel senso che la Chiesa cattolica è
diventata anzitutto una Chiesa locale, non più gestita dai missionari. Questo si è
realizzato soprattutto in Burundi durante gli anni del regime di Bagaza, che ha praticamente
espulso tutti i missionari occidentali. Ciò ha permesso alla Chiesa cattolica burundese
di diventare realmente radicata nella cultura e nel territorio. Sicuramente, è una
Chiesa che ha dovuto imparare ben presto a funzionare con le proprie risorse.
D.
- Tra il 1993 e il 2006, il Burundi ha vissuto una sanguinosa guerra civile tra hutu
e tutsi. Disordini ed episodi di banditismo sono continuati fino al 2003, quando venne
ucciso il nunzio apostolico Michael Courteney…
R. - L’assassinio del nunzio
è stato un episodio ancora in parte oscuro. Sicuramente, è una figura straordinaria.
Mons. Courteney si era reso conto che il Paese era squassato da gruppi armati - si
calcolavano almeno una quindicina di gruppi ribelli - sostanzialmente dei gruppi hutu,
legati quindi alle popolazioni locali, e chiaramente mons. Courteney, con altri vescovi,
appoggiava soprattutto la linea di questi vescovi, di quei leader che puntavano su
una pacificazione, su un abbassare le tensioni, abbassare i toni. Probabilmente, fu
ucciso proprio perché considerato un ostacolo, una figura che si opponeva a dei gruppi
troppo radicali, che invece avevano tutti gli interessi a mantenere alta la tensione
e il conflitto.
D. - Dopo la guerra civile, il Burundi ha dovuto occuparsi
della conta dei morti: sono stati quasi 300 mila e due milioni e mezzo di rifugiati.
Qui entrano in azione le ong…
R. - Esattamente. E’ un fenomeno tipico del periodo
della guerra e del dopoguerra. Le ong arrivano come forze umanitarie e diventano anche
forze che riescono a modernizzare l’attività sociale.