Iraq: strage senza fine. Un esule: grandi interessi perché il Paese resti diviso
Non si arresta la violenza in Iraq. Due kamikaze hanno colpito due posti di controllo
della polizia, nella città di Rutba, a 110 chilometri dal confine con la Siria. Un
altro commando ha attaccato due postazioni della pubbllica sicurezza a Ramadi, capoluogo
della provincia di Anbar, 26 le vittime complessive. 5.200 i morti dall’inizio dell’anno,
oltre 500 nel solo mese di ottobre. Un drammatico bilancio di morte sostanzialmente
ignorato dai media internazionali. Migliaia i profughi che dalla caduta di Saddam
Hussein, nel 2003, hanno lasciato e lasciano il Paese, con loro l’80% dei cristiani.
Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Taofic Mustafa Jassim, esule
iracheno, esperto dell’Area e ricercatore presso l’Università di Pisa in Relazioni
internazionali e Diritti umani:
R. – E’ un massacro
continuo. Dopo 10 anni dall’invasione e della caduta del regime di Saddam Hussein,
ancora siamo punto e a capo. Non c’è un governo forte, è un Paese difficile da governare
per il fatto della sua particolarità multietnica e multireligiosa, multipartitica.
L’Iraq non ha trovato la pace.
D. – Si parla anche di una guerra interna tra
sciiti e sunniti: è così, secondo lei?
R. – Certamente, all’occhio dell’opinione
pubblica mondiale. In realtà, non è una guerra tra sciiti e sunniti: entrambi sono
bersagli di questi attentati. Ora, la città di Rutba è la componente sunnita; il resto
– Baghdad e altre città del Sud, per la maggior parte sono cittadini di fede sciita.
Ma tutti i giorni noi sentiamo parlare di grandi attentati nelle moschee, nei centri
urbani…
D. – Ma quindi, chi sono questi terroristi?
R. – Sono difficili
da individuare: non è possibile credere che siano piccoli gruppi terroristici, perché
questi grandi attentati quotidiani si ripetono da anni. Dal mio punto di vista, c’è
una mente forte dietro a questi attentati, perché ha bisogno di grande logistica,
di grandi preparazioni. Non è possibile che noi tutti i giorni sentiamo di decine
di attentati di kamikaze: da dove viene tutto questo? E chi li prepara? E’ difficile
dire chi sia dietro a questi. Sicuramente, grandi interessi internazionali, perché
l’Iraq è un Paese ricchissimo di risorse naturali. Alla fine del 2013, quasi quattro
milioni di barili di petrolio sono stati esportati quotidianamente. Qualche giorno
fa, il ministro del Petrolio ha dichiarato che alla fine di questo decennio, nel 2020,
sarà triplicata l’esportazione – vuol dire quasi 10 milioni di barili di petrolio.
E ci sono grandi multinazionali e ovviamente è circondato da Paesi come l’Iran, come
la Turchia, come la Siria oltre ai Paesi del Golfo… Sono in gioco grandi interessi
internazionali e multinazionali.
D. – Ma, secondo lei, c’è qualcuno che ha
interesse affinché l’Iraq resti diviso?
R. – Non c’è dubbio: più di un Paese.
D.
– Qual è il vantaggio?
R. – E’ in qualche modo controllabile e le risorse naturali
che ci sono possono essere meglio sfruttate.
D. – Ciò che accade in Iraq tendenzialmente
rimane sotto silenzio, per quanto riguarda la stampa internazionale. Perché sta diventando
una crisi dimenticata?
R. – Perché tutti gli occhi sono rivolti alla Siria,
e per non spaventare le grandi multinazionali. Adesso, ci sono centinaia di grandi
aziende petrolifere che stanno lavorando in Iraq e parlare dell’Iraq spaventa le multinazionali…
D.
– Cioè, lei sta dicendo: se si parla troppo della guerra, alla fine si perdono gli
investitori internazionali e quindi è meglio non parlarne?
R. – Secondo me,
sì.
D. – Dunque, quanto però influisce anche la situazione siriana in Iraq?
R.
– Sulla stampa irachena ho letto che al Qaeda ha minacciato di occupare provincie
di Ramadi, al confine con la Siria, per cancellare il confine internazionale fra i
due Paesi.
D. – A questo si aggiunge anche il fenomeno dei profughi. Da una
parte, in questo momento c’è una fuoriuscita dal Paese siriano, ma anche dall’Iraq
le persone fuggono, per quanto sta accadendo?
R. – E’ così, ora scappano dall’Iraq.
Ora, anche moltissimi cristiani scappano dall’Iraq perché un Paese che prima della
guerra aveva ufficialmente quasi un milione di cristiani che per secoli hanno vissuto
lì, perché non c’erano stati problemi tra cristiani e musulmani di entrambe le tendenze
– sunniti e sciiti. Ma dopo la caduta di Saddam Hussein, centinaia di migliaia di
cristiani iracheni hanno abbandonato il Paese, insieme a molti musulmani. Ora, prima
della guerra in Siria c’erano oltre un milione di iracheni solo in Siria; adesso,
o tornano nel Paese d’origine dell’Iraq, o cercano di andare in altri Paesi. Allo
stesso tempo ci sono anche i siriani che stanno scappando: si dice che in questo momento
siano due milioni e mezzo i siriani fuori dal loro Paese, in Giordania, in Iraq, in
Libano e in Turchia.
D. – Qual è il suo auspicio?
R. – Il mio auspicio
è che la comunità internazionale prenda coscienza del fatto che questa tragedia deve
finire. Deve intervenire per far cessare questo massacro, queste sofferenze sia in
Siria, ovviamente, sia in Iraq: che favorisca un governo democratico – soprattutto
– forte. Questo è il mio auspicio.