Onu: no dell'Arabia Saudita ad un seggio in Consiglio di Sicurezza
Con un’azione di protesta senza precedenti, l’Arabia Saudita ha rinunciato ad entrare
come membro non permanente nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu. Al segretario generale
delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, non è ancora arrivata una comunicazione ufficiale
da Riad, ma il testo del comunicato del ministero degli Esteri saudita, venerdì, poche
ore dopo l'assegnazione del seggio per un mandato di due anni, non lascia dubbi. "Il
regno - recita la nota - ritiene che i metodi, gli strumenti di lavoro, i doppi pesi
e le doppie misure adottate attualmente dal Consiglio di Sicurezza rendono l'organo
incapace di svolgere i propri doveri e di assumersi la responsabilità nei confronti
del mantenimento della sicurezza e della pace". Il riferimento è anzitutto al conflitto
siriano, in cui Riad appoggia l'opposizione, e che ha visto Russia e Cina, membri
permanenti del Consiglio con diritto di veto, bloccare diverse risoluzioni di condanna
al regime di Bashar al Assad. Criticato il Consiglio di Sicurezza anche per la gestione
della questione palestinese e del controllo degli arsenali nucleari mediorientali.
Gli altri Paesi arabi all'Onu hanno invitato Riad a tornare sui propri passi. Sulla
presa di posizione dell’Arabia Saudita, ascoltiamo Luigi Bonanate, docente
emerito di Relazioni internazionali all’Università di Torino, intervistato da Giada
Aquilino:
R. – Questa
dichiarazione di rifiuto nei confronti del seggio appare motivata dal dispetto provato
per l’incapacità dell’Onu di affrontare la questione siriana. Se esaminassimo la cosa
in sé, mi verrebbe da dire: “E’ molto giusto: la guerra civile in Siria continua e
si muore in Siria. Tutto è stato mascherato da quella tragica storia del gas, come
se quello fosse stato l’unico problema: ma il problema era più ampio”. E quindi l’Arabia
Saudita oggi dichiara di essere contraria al modo in cui l’Onu ha gestito la crisi.
Però, allora, prenda iniziative internazionali…
D. – Come vanno interpretate
le critiche all’Onu di incapacità di assicurare la pace e di mantenere la sicurezza?
R.
– Permettiamoci di sottolineare che lo dicevamo da 50 anni! Non è una novità che l’Onu
abbia determinati problemi. Ma il punto è questo: l’Onu è ciò che gli Stati vogliono
che essa sia. L’Onu non ha colpe e responsabilità: è il punto in cui si incrociano
le politiche estere ufficiali degli Stati. Per cui, se l’Onu non funziona la
colpa è degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, della Russia, della Francia, della
Germania, dell’Italia e via discorrendo. L’Arabia Saudita, oggi, ci mette per l’ennesima
volta di fronte a questo fallimento.
D. – Il dibattito su una revisione delle
funzioni dell’Onu è dunque avviato da decenni; di fatto, a che punto è?
R.
– A nessun punto. In questo senso: spesso viene riaperto il dossier sulla riforma
dell’Onu; ogni tanto si propone di spostare un seggio, di aggiungerne due o tre, c’è
la questione del Giappone, c’è la questione del Brasile, la questione dell’Unione
Europea in quanto tale, che sarebbe anche sensata… Se noi pensiamo che una volta l’Unione
Sovietica aveva tre o quattro seggi perché era talmente grande, rappresentava tanta
parte territoriale dell’Europa asiatica, allora si potrebbe forse pensare a qualcosa
del genere per l’Unione Europea. Ma tutte le volte che si riapre questo dossier, salta
fuori che chi stava facendo le richieste più importanti è indietro con i pagamenti
delle quote associative dell’Onu e quindi non ha diritto di parola; oppure chi ha
i soldi, invece, vorrebbe ‘comprarsi’ un seggio. Insomma, ogni volta c’è qualche ostacolo
che impedisce che ci si sposti da quella che è l’Onu del 26 giugno 1945.
D.
– Al di là delle polemiche, c’è il rischio che l’Onu poi di fatto diventi un’istituzione
con funzioni solo di richiamo morale?
R. – Non sarebbe una cosa da poco, che
l’Onu potesse essere questa autorità morale internazionale a cui tutti si rivolgessero:
sarebbe già un grande risultato. Così come sta andando il mondo, direi che al massimo
può avere un ruolo morale che però, come possiamo ben capire, non serve ad intervenire
né in Siria, né in Libano, né in tutte le altre grandi crisi del mondo.