Marcia di S.Egidio nel 70.mo del rastrellamento del ghetto. Interviste con Riccardi
e Di Segni
“Senza memoria non c’è futuro” è la scritta che campeggiava mercoledì sera su uno
striscione portato durante la marcia nel centro di Roma, in ricordo del 70.mo del
rastrellamento degli ebrei a opera dei nazisti. L’iniziativa è stata organizzata dalla
Comunità di Sant’Egidio e ha visto la partecipazione di centinaia di persone e di
autorità istituzionali e civili, tra cui il presidente della Camera, Laura Boldrini,
e il sindaco della capitale, Ignazio Marino. Al microfono di Alessandro De Carolis,
il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, riafferma il dovere di perpetuare
la memoria, nonostante il passare degli anni rischi di sbiadirla:
R. – Io credo
che la distanza allontani tutto, questo è inevitabile. E c’è da chiedersi perché quell’evento
sia rimasto così sentito, tanto sentito. Credo che quell’evento sia molto sentito,
innanzitutto perché la comunità ebraica porta quel dolore come un dolore delle proprie
famiglie. Io credo sia stata importante anche questa marcia, cui la Comunità di Sant’Egidio
e anche la comunità ebraica hanno lavorato molto, proprio perché ha associato questo
ricordo in tanti uomini, tante donne e anche tanti immigrati, tante persone, che possono
avere anche dei pregiudizi nei confronti degli ebrei, provenienti dai Paesi di origine.
Io credo si stia costruendo una memoria di popolo e questo permette di liberarci dalla
ritualità.
D. – Come le è risuonata l’esclamazione di Papa Francesco, quando
ha detto “Un cristiano non può essere antisemita?”
R. – Credo che il Papa senta
molto questo e noi tutti lo sentiamo con lui. La sua storia è una storia di amicizia
con gli ebrei. Papa Wojtyla ci ha insegnato a essere amici degli ebrei e Papa Bergoglio
ha vissuto in Argentina questa amicizia e l’ha continuata qui. E’ stato nostro ospite,
durante la preghiera della pace, il rabbino Skorka di Buenos Aires, che è proprio
testimone di quest’amicizia. Un cristiano non può essere antisemita, non solo perché
gli ebrei sono i nostri fratelli maggiori e c’è un legame imprescindibile, ma anche
perché un cristiano non può praticare l’odio, il razzismo e la persecuzione.
D.
– Agli avvenimenti di cui ieri si faceva memoria, lei ha dedicato un libro, che viene
presentato oggi in Campidoglio: “L' inverno più lungo. 1943-44: Pio XII, gli ebrei
e i nazisti a Roma”. Dal suo studio, cosa dice la Roma di 70 anni fa alla città e
ai romani di oggi?
R. – Io ho dedicato questo libro, pubblicato da Laterza,
cui ho dato il titolo “L’inverno più lungo”, alla ricostruzione di quegli eventi.
Non è, infatti, bianca e nera quella vicenda. È una vicenda complessa: è una vicenda
di traditori, di gente che ha venduto gli ebrei, di una massa grigia, di gente coraggiosa,
generosa, di molti religiosi, dell’atteggiamento del Papa che non può essere semplificato.
E’ una vicenda di umanità e anche una vicenda triste. Credo che quella vicenda mostri,
secondo me, che allora la comunità ebraica fu isolata: fu isolata nel ’38 e poi nella
tragedia si dovettero ricostruire i legami. Ho scritto quel libro con molta passione,
con molta commozione, e presentarlo oggi in Campidoglio per me è importante, perché
a ridosso di quegli eventi – oggi è il 17 ottobre, il giorno dopo la celebrazione
dei 70 anni. Ci insegna parecchio.
D. – Che cosa in particolare?
R.
– Ci insegna che mai bisogna lasciare sola la comunità ebraica, che mai bisogna isolare
nessun gruppo e ci insegna che tante volte la nostra vita dipende dall’andare a destra
o a sinistra, come quegli ebrei che se imboccavano una strada trovavano i tedeschi
e se ne imboccavano un’altra la via della salvezza. Ci insegna, soprattutto, che noi
possiamo fare molto per gli altri, perché dietro ad ogni scampato c’è sempre un giusto,
un uomo che è stato generoso.
La testimonianza di uno dei sopravvissuti ha
fatto rivivere ieri sera il dramma di quel 16 ottobre 1943. Una giornata di angoscia
e di orrore per l’antica comunità degli ebrei romani. E un’eco di quelle ore torna
nelle parole del rabbino capo di Roma, Riccardo Di Segni, intervistato da Fabio
Colagrande:
R. – In 22 secoli
di permanenza, a Roma era stata la giornata più drammatica: più di mille persone strappate
alle loro case, chiuse in vagoni piombati e portati ad Auschwitz… 800 gassati subito,
all’arrivo. Quindi, qualcosa che non era mai successo nella storia, una storia di
sofferenze e di umiliazioni, ma mai di massacri collettivi. Il segno malefico di un
tempo micidiale. Conservare allora la memoria di questo, capire perché è successo
– senza negare responsabilità, senza dimenticare i gesti eroici e di solidarietà –
tutto questo è una lezione importantissima. Per noi, è una ferita aperta ancora, ovviamente…
D.
– Posso chiederle se ha ricordi personali o familiari legati al quel 16 ottobre?
R.
– Io sono nato dopo. I miei genitori, con due bambini, fecero in tempo a scappare
da Roma pochi giorni prima, rifugiandosi in montagna, dove mio padre e mia padre si
unirono a una banda di partigiani e mi padre fu il medico della banda dei partigiani,
decorato per questo anche al valor militare. Mia madre, tale era stata precipitosa
la fuga da Roma, pensò di ritornare a Roma per prendere un po’ di coperte: era il
giorno prima del 16 ottobre. Fatte le valigie si chiese se era il caso di riposare
per un notte a Roma, prima di ripartire… Poi, ebbe chissà quale ispirazione e disse:
“No, ma è meglio che me ne torno via”. Se fosse rimasta se la sarebbero portata via”.