Nuovi sbarchi a Lampedusa. Il governo discute della missione
Emergenza immigrazione ancora in primo piano. Ieri nuovi sbarchi a Lampedusa, mentre
è ripreso il carico di feretri delle vittime del naufragio del 3 ottobre scorso nell'isola.
E il Governo mette a punto l’operazione militare-umanitaria, denominata ”Mare sicuro”.
Il servizio di Giampiero Guadagni:
Al via l’operazione
Mare nostrum. Tre, ha spiegato stasera il ministro dell'Interno Alfano, i livelli
per affrontare i flussi migratori: quello estero di cooperazione internazionale tendente
a fare di tutto perché i migranti non partano; un livello relativo al controllo della
frontiera, che è europea non italiana; infine, l'accoglienza e il dispiegarsi del
dispositivo nazionale. Mare Nostrum, ha aggiunto il ministro della Difesa mauro, sarà
un'operazione militare ed umanitaria e prevede il rafforzamento del dispositivo di
sorveglianza e soccorso in alto mare per incrementare il livello sicurezza delle vite
umane. La Marina militare fa sapere di essere pronta, con uomini e mezzi impegnati
nei pattugliamenti nel triangolo tra Malta, coste libiche e Sicilia. E intanto è ripreso
il carico di feretri delle 364 vittime del naufragio del 3 ottobre scorso a Lampedusa.
Le bare saranno portate a Porto Empedocle, dove dovrebbero arrivare nei prossimi giorni
anche i feretri dei 38 migranti morti nell'ultimo naufragio di venerdì scorso. Ma
i viaggi della speranza e della disperazione non si fermano. Oggi altre imbarcazioni
con centinaia di migranti sono state soccorse tra Malta e la Sicilia e un barcone
con a bordo 137 persone, è approdato all’alba direttamente nel porto di Lampedusa,
senza essere stato avvistato.
In molti i casi i barconi carichi di migranti,
provenienti in gran parte da Siria, Eritrea e Somalia, partono dalla Libia. L’imbarcazione
naufragata lo scorso 11 ottobre provocando la morte a largo di Lampedusa di almeno
34 persone, era partita dal porto libico di Zwara. In questa città nei giorni scorsi
il giornalista della Rai, Amedeo Ricucci, ha incontrato alcuni cittadini libici che
organizzano questi “viaggi della disperazione” verso le coste della Sicilia. Amedeo
Lomonaco lo ha intervistato:
R. – Mi hanno
raccontato che questo tipo di business, come lo chiamano loro, è un business che ai
tempi di Gheddafi, avveniva praticamente alla luce del sole: Gheddafi utilizzava gli
immigrati, anche le partenze sui barconi, come merce di scambio per ottenere maggiore
visibilità, considerazione e aiuti da parte delle potenze europee. Per cui nei porti
della Tripolitana - a Zwara dove ero io, ma anche gli altri fino ad arrivare a Misurata
- praticamente non c’era famiglia che non fosse coinvolta in questi traffici, che
avvenivano con una certa organizzazione all’epoca. Il carico comunque era un carico
limitato, le barche venivano fornite di Gps, oltre che di satellitare Thuraya, e arrivavano
infatti molto spesso a destinazione.
D. – Poi come è cambiata, nel corso degli
anni, l’organizzazione di questi viaggi?
R. – Con gli anni il traffico è stato
sempre più contrastato, tranne che nel periodo della guerra in cui Gheddafi ha utilizzato
gli immigrati come scudi umani, mandandoli contro le coste italiane. Adesso questo
tipo di traffico continua a partire dalle coste libiche, ma sta cambiando un po’ pelle:
a detta dei trafficanti - quindi l’affermazione va presa con il beneficio del dubbio
- ad organizzarlo sono soprattutto reti di stranieri, egiziane e tunisine, per non
parlare degli stessi immigrati che si auto organizzano. I libici forniscono le barche.
Tra l’altro i libici non salgano sui barconi e molto spesso a condurli sono marinai
tunisini o egiziani. Sono gli immigrati, dicono i trafficanti, a spingere per partire
a tutti i costi e, quindi, anche a riempire i barconi.
D. – Per molti migranti
la paura di morire in mare è meno forte di quella di tornare in Paesi minati dalla
povertà o dalla guerra, come l’Eritrea o la Siria. I barconi sono l’unica, a volte
l’ultima, possibilità per raggiungere l’Occidente…
R. – Per loro, arrivare
in Italia è importantissimo. Io ho sentito diversi immigrati che vivono a Tripoli
- eritrei, somali e etiopi - che mi hanno detto molto candidamente: “Io non ho paura
a fare questo viaggio. So che è rischioso, so che le barche possono naufragare, so
che si può morire, ma questa è l’ultima tratta di un viaggio lunghissimo che ho fatto.
Ne ho visto di tutti i colori: io ho visto la guerra nel mio Paese, io ho attraversato
il deserto a piedi, io sono stato in galera, nelle prigioni libiche… Non ho alcun
motivo per spaventarmi per queste 50-100 miglia che ci sono da fare”.
D. –
Le coste libiche sono comunque controllate dalle autorità locali?
R. – Questa
è una fase di particolare incertezza in Libia e quindi i controlli – che pure ci sono
e io ho visto le guardie costiere che pattugliavano le coste – sono intermittenti
e ovviamente non sono completi. La fase di anarchia che sta vivendo la Libia negli
ultimi mesi – attentati, rapimenti, mancanza di una leadership politica forte, lo
stesso primo ministro che viene sequestrato nell’albergo dove risiede e viene liberato
qualche ora dopo – sono il segno di quanto le istituzioni della nuova Libia siano
ancora fragili.
D. – Il premier libico ha detto che la Libia deve essere aiutata
nel controllare le frontiere…
R. – Non esiste uno Stato in Libia e me lo ha
confermato ieri in un’intervista esclusiva data a noi del Tg1 il primo ministro Alì
Zeidan, che dice: “Non ci potete lasciare da soli ad affrontare questo problema. Noi
non abbiamo né le risorse, né gli uomini, né le attrezzature per contrastare questo
traffico”.
D. – Questo pomeriggio a Palazzo Chigi si terrà il vertice per definire
i dettagli della missione “Mare sicuro”: l’obiettivo, attraverso pattugliamenti dei
mezzi della Marina Militare, è di evitare nuove tragedie. Può essere questa una misura
efficace per cercare almeno di arginare il business dei trafficanti di uomini dalle
coste del Nord Africa?
R. – Ti rispondo con le parole del primo ministro, a
cui ho fatto la stessa domanda. Il primo ministro Zeidan mi ha risposto: “Ben venga
la missione ‘Mare sicuro’ che vuole varare il governo italiano. Tenete, però, presente
che non è in questo modo che si risolve il problema, né in questo modo si ferma l’ecatombe
di morti nel Mediterraneo”. “Il problema – dice il governo libico – va affrontato
alla radice e affrontarlo alla radice vuole dire, ovviamente, cercare di impedire
che questa gente emigri dai Paesi di origine, ma per la Libia – in questo caso – vuol
dire migliorare il controllo sulle frontiere a Sud della Libia”. La Libia ha migliaia
e migliaia di chilometri di frontiere con diversi Paesi africani: è lì che va bloccato
il traffico!