L'Indice Cesvi su fame nel mondo: Africa e parte dell'Asia in gravi difficoltà
E’ stato la “Resilienza Comunitaria” alla denutrizione il tema scelto quest’anno per
l’Indice Globale della Fame 2013. Nel rapporto, che analizza la situazione in oltre
120 Paesi, si parla quindi della capacità delle comunità di anticipare, rispondere
e riprendersi dai cambiamenti climatici e dalle svariate cause all’origine dell’insicurezza
alimentare. L’Indice è stato presentato ieri in contemporanea mondiale in Italia,
Francia, Germania, Usa, Inghilterra, Irlanda e Belgio. Francesca Sabatinelli ha
intervistato Giangi Milesi, presidente di Cesvi, l’Ong all’origine dell’Indice:
R. - La fame
è un problema multidimensionale. Possiamo affrontarlo dando la ciotola di riso all’affamato
che incontriamo, però questo non rimuove il problema. Il problema vero è dare alle
comunità locali la capacità di lavorare contro i cambiamenti climatici che vogliono
dire siccità e alluvioni sempre più frequenti e quindi raccolti che se ne vanno, ma
che se vanno per più anni: quindi il contadino povero deve smettere; gli muoiono i
capi di bestiame; fugge, migra pur sfuggire alla siccità, alla carestia e all’alluvione.
E poi c’è il land grabbing, cioè l’acquisto delle terre da parte di altri
Paesi o di grandi multinazionali. Questa non è solo sottrazione della terra alle comunità
locali, è anche cambiamento del destino di queste terre: invece che un’agricoltura
per l’alimentazione, diventa una agricoltura per la produzione di fibre, come il cotone,
o per la produzione di biocarburanti. Anche dal punto di vista finanziario, il contadino
povero dei Paesi del Terzo Mondo oggi è piegato sotto il peso della speculazione finanziaria.
Sembrerebbe incredibile, ma quando i futures pesano dieci volte il Pil mondiale,
si buttano su qualsiasi materia prima e cambiano i prezzi del riso, anche in modo
significativo, questo vuol dire dare sopravvivenza o portare al fallimento un agricoltore.
D. – Giangi Milesi, quali dati prende in considerazione l’Indice?
R.
- Prende in esame i rapporti delle grandi organizzazioni delle Nazioni Unite sui temi
dell’alimentazione, ma anche sui temi della salute e in particolare della salute infantile.
Combinando i dati sull’alimentazione degli adulti, sull’alimentazione dei bambini
e sui tassi di mortalità infantile, uniti ai tanti altri dati, si riescono a capire
meglio le tendenze, perché dare dei numeri assoluti con una popolazione del pianeta
che cambia, non ci aiuta a capire se le cose stanno andando meglio o peggio. Le cose
sono andate malissimo in questi ultimi anni. Finalmente, qualche segno di speranza
c’è, anche se la situazione continua a restare grave.
D. – Dunque, i risultati
ottenuti cosa ci dicono della situazione della fame e della denutrizione nel mondo?
R.
- Che le due grandi aree del mondo dove si concentrano gli affamati sono l’Asia e
l’Africa. L’Asia meridionale è in cima alla classifica di questo indice, dove ancora
la fame è più forte. E purtroppo c’è uno zoccolo duro di questa fame a causa delle
condizioni delle donne (diseguaglianze ndr), causa fondamentale della malnutrizione
dei bambini e quindi della malnutrizione di tutta la società. Anche se l’Asia, grazie
alle sue crescite economiche, sta riducendo il fenomeno in maniera consistente. L’Africa
sub-sahariana continua ad essere la regione del mondo dove i problemi sono più spessi,
dove la popolazione adulta è più affamata. Anche qui ci sono dei segni di miglioramento.
D. – Non è certo una novità che questo discorso chiami in causa i Paesi industrializzati,
i grandi del mondo…
R. - Sì. E’ ovvio che questo indice raccomanda anche gli
interventi nelle politiche, delle politiche internazionali e delle politiche dei singoli
Paesi, proprio perché assumano un approccio multidisciplinare al tema della fame.
Però, dà anche a noi coraggio e speranza nel fare il nostro lavoro. Noi lavoriamo
sulla crescita delle capacità, attraverso la cooperazione delle comunità locali, non
solo di essere autosufficienti, ma anche di essere capaci di affrontare il mercato
e tutte queste variabili e tutti questi shock.
D. – Il Cesvi è attivo in molte
parti del mondo, quali possono essere esempi concreti di resilienza comunitaria?
R.
- Abbiamo un caso specifico che è quello del Myanmar. E’ un Paese di cui non si hanno
i dati, è uno dei quei Paesi, come il Congo, in cui mancano ancora le informazioni
e che quindi si presume sia in una situazione grave, se non allarmante. In questo
Paese, lavoriamo in un migliaio di villaggi, dando consapevolezza a questo migliaio
di comunità del loro ruolo, costruendo la capacità di essere all’altezza di queste
sfide, del benessere, della lotta alla povertà.
D. – L’Indice ha preso in esame
anche il caso di Haiti, Paese in tre anni devastato prima da un terremoto, era il
2010, poi da piogge torrenziali…
R. - Sì, Haiti è uno dei quei casi che l’indice
ha preso in esame. Lavorare sull’agricoltura ad Haiti è un modo per garantire lo sviluppo.
Fare la ricostruzione di Port-au-Prince è molto difficile: quella città nasce da una
distruzione dei territori circostanti, dal fatto che quei terreni erano stati distrutti,
disboscati e questo disboscamento è poi anche una delle concause della gravità del
terremoto che ha colpito la città e dei danni che le piogge hanno provocato. Lavorare,
come abbiamo fatto noi, per decongestionare la città, riportando o trattenendo la
gente nelle campagne, è stato un modo per combattere la fame, ma anche per ridisegnare
con quella comunità una speranza per il futuro.