Libia: allarme sicurezza dopo il sequestro del premier Zeidan
Non si allenta l’allarme internazionale per il caos politico e militare in Libia,
all’indomani del sequestro lampo del premier Ali Zeidan, rapito da un gruppo di ribelli
islamisti come rappresaglia alla cattura da parte degli Usa di Al Libi, leader di
Al Qaeda nel Paese nel nordafricano. Sentiamo Marco Guerra:
Un appello
alla calma e al dialogo arriva dallo stesso premier Ali Zeidan, vittima ieri di un
sequestro lampo durato sei ore. “I libici - ha detto – hanno bisogno di saggezza,
non di un'escalation”. Il 63enne primo ministro, al potere da un anno dopo un trentennio
di opposizione a Gheddafi, smorza i toni e parla piccoli passi nella giusta direzione.
“Quando accaduto - aggiunge - rientra in un gioco politico interno”. Ma il quanto
accaduto rivela un’instabilità che sul terreno si traduce nel controllo di vaste aree
da parte delle milizie che hanno combattuto il regime nella guerra civile. Il gruppo
noto come 'Sala operativa dei rivoluzionari della Libia', a cui è attualmente affidata
la sicurezza di Tripoli, ha rivendicato l’arrestato del premier perchè il segretario
di Stato Usa, John Kerry, aveva confermato il coinvolgimento del governo libico nel
blitz americano contro il luogotenente di al Qaeda Al Libi. La situazione ovviamente
allarma i governi occidentali: in primis Italia e Stati Uniti che hanno assicurato
la cooperazione con tripoli per migliorare la sicurezza. Ma sui rischi che gravano
sul Paese, sentiamo il parere di Arturo Varvelli, ricercatore Ispi, intervistato
da Salvatore Sabatino:
R. – Certamente
questo rapimento va valutato nel quadro di caos ed anarchia, che sta vivendo in questi
mesi la Libia. C’è chiaramente un peggioramento della situazione, che già era molto,
ma molto difficile. Di fatto la Libia sta andando verso un fallimento. Soprattutto
bisogna dire che il rapimento del primo ministro viene dopo due eventi importanti:
ieri, la dichiarazione proprio di Zeidan sulla necessità di un intervento esterno
contro le milizie, che lo minacciavano e che minacciavano la stabilità del Paese e,
naturalmente, viene dopo l’evento della cattura del terrorista libico Abu Anas al
Libi, in passato vicino ad al Qaeda. E’,quindi, una sorta di risposta delle milizie
a questi due eventi.
D. – Proprio per quanto riguarda questo arresto, Zeidan
aveva detto di non essere stato informato da Washington di questo raid, che ci sarebbe
stato in territorio libico. E’ possibile che la Casa Bianca non lo consideri più la
persona giusta?
R. – No, io non penso che non lo consideri più la persona giusta.
Io penso piuttosto che ci sia poco da fare nell’ottica americana. Il Paese sta andando
fortemente allo sbando. Gli americani non capiscono realmente il Paese, tanto che
a giugno di quest’anno hanno chiesto una sorta di aiuto, di endorsement sulla questione
libica da parte dell’Italia, del governo Letta, allo scorso G8. Quindi una scarsissima
comprensione delle dinamiche ha fatto sì che ci fosse questa azione non ponderata
completamente, da parte degli americani, nelle sue conseguenze. Tutto sommato, anche
la dichiarazione del segretario di Stato, Kerry, che ha detto che Zeidan sapeva, lo
ha enormemente esposto ad una minaccia interna, come abbiamo visto. Il fatto l’ha
ulteriormente screditato, in una situazione già molto difficile dal punto di vista
della legittimità. Bisogna sapere che ci sono due legittimità in Libia, che si sono
formate: una è il processo democratico che ha portato al Parlamento e poi al governo
e l’altra è invece la legittimità di avere partecipato alla battaglia e alla lotta
contro Gheddafi. I miliziani si sentono legittimati da questa lotta a governare al
di là di ogni forma democratica e di Stato civile.
D. – Al di là di tutto,
però, Zeidan viene considerato da molti un leader debole, incapace di gestire una
situazione, come diceva lei, molto complessa, fatta di potenti signori della guerra,
di commercio di armi. E’ davvero una figura così debole?
R. – E’ certamente
una figura di rispetto, perché è una persona per bene, è una persona dal profilo democratico,
che però non ha grande presa. Il problema, penso, però, che non sia quello di una
leadership, di trovare una leadership più forte - in una condizione simile a quella
libica nessuna leadership sarebbe forte - se prima non esiste un processo di riconciliazione
nazionale, che coinvolga tutti gli attori sociali e politici del Paese. Allora chiunque
governerà si troverà in una situazione di debolezza. Insomma, dall’anarchia si esce
con un processo molto lento e faticoso, non certamente con l’introduzione di un nuovo
leader da parte di qualche fazione, da parte di qualche governo estero o di una sola
parte politica.
D. – Mi pare di capire che a questo punto se non interviene
comunque una mano esterna per ristabilire l’ordine, la Libia rischia di passare per
una sofferta guerra civile, tipo quella siriana...
R. – E’ difficile capire
se ci sono le possibilità di nuove escalation su vasta scala militare. Quello che
succede è che è un Paese totalmente ingovernabile, dove le milizie la fanno da padrone
e dove il monopolio dell’uso della forza da parte dell’autorità centrale è molto lento.
Quindi tenere insieme il Paese è molto difficile. Più che una escalation di guerra,
io vedrei elementi del Paese che si autogovernano, che è quello che già sta succedendo
di fatto, con città che si autogovernano - come Misurata – gruppi di miliziani che
si autogovernano e spadroneggiano nel Paese, sul territorio, mettendosi in accordo
o in confronto con altre parti del Paese, a seconda delle circostanze.