Myanmar: liberati 56 prigionieri politici, prosegue processo di pacificazione
In Myanmar, prosegue il processo di pacificazione interna. Sono stati, infatti, liberati
56 prigionieri politici. Si tratta di un ulteriore passo verso la scarcerazione di
tutti i dissidenti entro la fine dell'anno, così come annunciato dal presidente Thein
Sein. Tuttavia diverse sono ancora le proteste negli ambienti dell’opposizione, guidata
da Aung San Suu Kyi, e delle minoranze etniche, che lamentano come le autorità continuino
a perseguire le opposizioni. Sulla situazione nell’ex Birmania, Giancarlo La Vella
ha intervistato il prof. Giuseppe Gabusi, docente di Relazioni Internazionali
dell’Asia orientale all’Università Cattolica di Milano:
R. – Non parlerei
di un processo sicuramente irreversibile. Siamo certamente in presenza di un grande
fermento democratico, di un’apertura del Paese che soltanto due-tre anni fa sarebbe
stata assolutamente inimmaginabile: e va aiutata, la Birmania, a perseguire questo
processo, ricordando però che un possibile colpo di Stato da parte di qualche fazione
all’interno dell’esercito, contraria a questo tipo di riforme, è sempre possibile.
D.
– Attualmente, l’opposizione è entrata in Parlamento. Da questo confronto tra l’opposizione,
che vorrebbe un processo più veloce, e il governo, possono sorgere problemi?
R.
– Certamente c’è un ruolo di Aung San Suu Kyi che dev’essere svolto nel migliore dei
modi; Aung San Suu Kyi è chiaramente un’icona per la Birmania e tuttavia Aung San
Suu Kyi oggi è in una posizione più debole, perché oggi è criticata spesso all’interno
del proprio movimento perché è scesa a patti con il regime, ma è anche criticata dalle
altre etnie che compongono il composito panorama delle popolazioni della Birmania,
che l’accusano di essere fondamentalmente una birmana che quindi non conosce la realtà
di queste etnie che popolano anche i confini montagnosi della Birmania. Questi prigionieri
sembra che appartengano in realtà alle milizie dello Stato Shan e dell’etnia Kachin.
Quindi, anche il rilascio di questi dissidenti ci mostra come la questione etnica
e la questione democratica siano tra loro correlate.
D. – Quali potenze estere
guardano a questo processo in corso in Myanmar?
R. – Un po’ tutte. Certamente
la Cina, che ha investito pesantemente negli ultimi anni: è di fatto l’unico grande
Paese che avrebbe potuto investire nel Myanmar. Ma l’investimento cinese è crollato
dai 12 miliardi di dollari dal 2008 al 2011, ai 407 milioni di dollari nell’anno 2012-2013.
C’è un interesse, ovviamente, degli europei, degli Stati Uniti; c’è "il ritorno" dei
giapponesi e anche del Sudest asiatico: ci sono investimenti thailandesi, malesi nel
turismo, nel tessile – c’è un interesse, chiaramente, verso la manodopera a basso
costo. Ma non dobbiamo dimenticare il grande legame di Aung San Suu Kyi e di una parte
dell’élite birmana con l’Occidente, in particolare con il Regno Unito. Quindi, anche
l’Occidente avrà un suo ruolo da svolgere, permettendo che il Myanmar eviti grandi
problemi che invece altri Paesi dell’Asia hanno incontrato durante lo sviluppo, ad
incominciare dall’inquinamento e dallo sfruttamento delle risorse. E magari, il Myanmar
potrebbe essere un nuovo esempio di uno sviluppo più attento della dimensione umana
nell’area.