Strage Lampedusa: vittime quasi tutte eritree. L'esperto: punti di raccolta sicuri
alla partenza
La drammatica vicenda di Lampedusa ha rivelato come la maggior parte dei migranti
vittime del naufragio di giovedì scorso fosse di nazionalità eritrea. Si tratta di
persone che fuggono da un Paese che, nonostante abbia raggiunto l’indipendenza da
oltre 20 anni, non ha ancora trovato gli equilibri interni. Elvira Ragosta ne
ha parlato con Alganesh Fessaha, membro eritreo della ong Gandhi, che si è
recata a Lampedusa per incontrare i connazionali superstiti:
R. – Finora,
le persone che abbiamo identificato sono tutte eritree.
D. – Tra i superstiti
invece?
R. – Sono tutti eritrei.
D. – I numeri sono sconcertanti. Perché
queste persone fuggono dall’Eritrea?
R. – Perché noi abbiamo un regime militare
dittatoriale che va avanti da 20 anni: non ci sono elezioni, non c’è multipartitismo,
non c’è lavoro ma c’è fame. Bisogna fare il servizio militare dall’età di 13 anni
ai 54, con una paga di 25 dollari. Un giovane così non potrà mai avere una vita propria.
Al governo eritreo non mancano i soldi ma questi vengono spesi per gli armamenti.
Questo deve finire! Deve finire anche che i Paesi europei aiutino questo governo.
D.
– Le notizie che arrivano dall’Eritrea parlano di cinque mila prigionieri politici,
circa 70 mila rifugiati e di una situazione soprattutto nella zona di confine in cui
le forze di polizia sparano…
R. – Io lavoro nel campo profughi in Etiopia.
Adesso, siamo arrivati ad avere 89 mila profughi eritrei in questi quattro campi.
D.
– Coloro che sono arrivati vivi a Lampedusa cosa le hanno raccontato? Come è stato
il loro viaggio?
R. – Loro arrivano in Libia attraverso vari mediatori, anche
eritrei. Nel corso del viaggio molti sono stati picchiati, alcune donne sono state
anche violentate.
D. – Cosa potrebbe fare il governo eritreo per evitare questa
fuga di massa?
R. - Il governo eritreo intanto, prima di prevenire la fuga
di massa, deve cambiare. Adesso avanzeremo la richiesta, per queste 400 persone, di
farle ritornare nel loro Paese e dar loro degna sepoltura. Abbiamo quindi bisogno
di un nulla osta, ma il governo eritreo non lo farà. Questo è un grande dramma. In
Eritrea, ci vuole un cambiamento, il governo innanzitutto deve togliere il servizio
militare; deve poi dare la possibilità ai giovani di studiare; deve dare la libertà
di stampa e di parole poi deve dare anche la possibilità di lavorare. Cosa serve fare
il servizio militare per tutta la vita?
La tragedia di Lampedusa ha riaperto
il dibattito sulla legge Bossi-Fini. Il ministro dell’integrazione, Cecile Kyenge,
parla di molti punti da rivedere, di diverso avviso diversi esponenti di Pdl e Lega.
Inoltre, polemiche nei giorni scorsi sono sorte dopo la notizia dell’incriminazione
dei sopravvissuti per immigrazione clandestina. Antonella Palermo ha intervistato
Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia dei processi migratori all’Università
Statale di Milano:
R. – Il reato
di immigrazione clandestina è collegato alla politica europea, la stessa che ci ha
obbligato ad aprire quelli che poi sono diventati i Centri di identificazione ed espulsione
per gli immigrati clandestini (Cie). Il problema deriva dall’Europa, dalla politica
in generale dei Paesi avanzati che cercano di “chiudere le porte”, di non accogliere
non solo i migranti economici ma nemmeno i rifugiati.
D. – Secondo lei, all’indomani
di questa tragedia, l’Europa cambierà atteggiamento sulla politica sulle migrazioni?
R.
– Va detto che l’Europa, in realtà, accoglie molti più rifugiati dell’Italia, quanto
meno l’Europa centrosettentrionale. In Italia, accogliamo circa un rifugiato ogni
mille abitanti, la Germania ne accoglie sette, la Svezia nove e così via… Nell’ultimo
anno, in Italia ci sono state 14 mila domande di asilo e 64 mila in Germania, quindi
l’idea che l’Europa lasci gli italiani a gestire il problema degli arrivi è una rappresentazione
provinciale della questione. Detto questo, l’Europa dovrebbe fare due cose. La prima:
istituire punti di raccolta sicuri per le domande di asilo, il più vicino possibile
ai luoghi dove hanno origine i flussi. Sappiamo che molti migranti arrivano da zone
in guerra come l’Eritrea, la Somalia, ultimamente dalla Siria e dal Congo, quindi
occorre evitare il più possibile rischiosi viaggi per mare. La seconda cosa che l’Europa
dovrebbe fare – considerando che ha già stanziato grandi risorse per il sistema "Frontex"
e pattuglia con navi, elicotteri ed aerei le sue frontiere, tra cui il Mediterraneo
– è di utilizzare meglio queste risorse tecniche, finanziarie per soccorrere i migranti.
Anche dal punto di vista della sicurezza, desta perplessità l’idea che non delle barche,
ma addirittura dei pescherecci, possano arrivare fino alle nostre coste senza essere
intercettati. O il sistema è inadeguato, oppure hanno fatto finta di non vederli.
D. – Secondo lei, c’è qualcosa di sbagliato nelle reazioni politiche e mediatiche
in Italia a fronte di questo tragico avvenimento?
R. – Purtroppo, c’è un’ottica
provinciale, e anche retorica, ad esempio l’idea che i rifugiati siano troppi, che
ne arrivino numeri insostenibili. L’81% dei rifugiati del mondo trova asilo nei Paesi
del Sud del mondo, il primo Paese per numero di rifugiati accolti è il Pakistan, il
secondo è l’Iran. Quindi, questa idea che l’Italia è sotto invasione è sbagliata.
Tra l’altro, dieci anni fa i rifugiati accolti nel Nord del mondo erano il 10% in
più. Sta diminuendo la nostra volontà e disponibilità di accogliere, stanno funzionando
le politiche che tendono a tener lontani i rifugiati dalle nostre coste. Altro errore
di giudizio è questa insistita retorica sull’Europa che non aiuta l’Italia, che non
condivide i carichi. Il giorno che l’Europa decidesse che si condividono i costi dell’accoglienza
dei rifugiati noi ci accorgeremo di dover versare dei contributi per aiutare la Germania,
la Svezia, l’Olanda, l’Inghilterra e la Francia che accolgono numeri di rifugiati
maggiori rispetto ai rifugiati che accogliamo noi, sia in termini assoluti, sia in
proporzione alla loro popolazione.
D. – L’esodo continua. Qualche suggerimento
proprio in questo frangente in cui bisogna intervenire su più fronti?
R. –
Il primo è una cosa da non fare: dire che bisogna allearsi con i Paesi del Sud del
Mediterraneo per impedire che partano. C’è un’ipocrisia che va denunciata: la verità
è che noi non vogliamo che vengano a morire sotto i nostri occhi, sulle nostre belle
spiagge. Se muoiono nel deserto, o nei campi di concentramento libici, o vessati
dalle bande che padroneggiano in Paesi come la Libia, allora non ci interessa perché
non avviene sotto i nostri occhi. Quindi, il problema non è chiedere agli stati rivieraschi
del Sud del Mediterraneo di impedire le partenze, ma semmai di allearsi con loro,
affinché i richiedenti asilo vengano accolti umanamente ed affinché le loro domande
si possano vagliare rapidamente ed in modo serio per poter accogliere in Europa, o
altrove, coloro che ne hanno diritto.