Tredici persone sono state uccise in Iraq in attentati e scontri in varie regioni:
da Kirkuk a Falluja, da Samarra a Diyala. Anche la capitale Baghdad è stata teatro
di una serie di attentati da settimane. Nel solo mese di settembre, sono morte 1.000
persone e dall’inizio dell’anno hanno perso la vita 115 bambini. Si tratta del più
alto livello di violenza dai tempi dell’intervento americano, iniziato nel marzo del
2003. Dopo la conclusione del ritiro delle truppe americane, nel dicembre del 2011,
resta in Iraq una ridotta forza dell’Onu. Ma quanto sta accadendo va messo in relazione
con il conflitto in Siria? Fausta Speranza lo ha chiesto a Federico Niglia,
docente di Storia delle relazioni internazionali all’Università Luiss:
R. - Quello
che sta succedendo in Iraq è certamente il risultato di una generale destabilizzazione
dell’area: la questione siriana certamente pesa sulla recrudescenza della violenza
a Baghdad e anche nelle altre zone dell’Iraq. Non va, però, sottovalutato che l’Iraq
ha dei suoi problemi interni di stabilizzazione, di dissidi religiosi e di rapporti
con le minoranze ad oggi completamente insoluti.
D. - Quindi, che cosa dire
di questa violenza? E’ soprattutto, davvero, frutto dello scontro tra sunniti e sciiti?
R. - La contrapposizione, ma anche la competizione tra sunniti e sciiti è
un ingrediente fondamentale dell’attuale recrudescenza della violenza in Iraq. Va,
però, detto che non è possibile attribuire solo alle dinamiche sciiti-sunniti la violenza,
anche perché all’interno delle due compagini - all’interno degli sciiti, all’interno
dei sunniti - c’è anche una accesa dialettica interna che accresce il livello più
generale di tensione.
D. - Professor Niglia, bisogna dire oggi che abbiamo
lasciato un Iraq troppo debole per farcela da solo?
R. - L’Iraq ha, secondo
me, ancora bisogno di aiuto. Può essere un aiuto sicuramente diverso rispetto a quello
che è stato profuso in passato, ma non si può certamente pensare che senza un sostegno
militare, nel senso di sicurezza, si possa uscire dall’attuale situazione. L’Iraq
ha un forte deficit di sicurezza e senza un supporto e una garanzia non è ipotizzabile
uno sviluppo pacifico e costruttivo di quel Paese.
D. - Vogliamo, però, ricordare
qualcosa di quello che è stato costruito in questi anni? Si partiva da una situazione
veramente drammatica…
R. - Nel momento in cui si abbatte una dittatura, si
liberano anche delle forze che sono forze democratiche, che sono forze costruttive,
i cui risultati però si vedono solo nel lungo periodo. Quando è stato compiuto l’intervento
in Iraq, in Iraq non sono andate solo truppe: è andato anche un mondo di valori, di
finanziamenti, di idee e di politiche che ora stanno contribuendo, secondo me, in
modo positivo a una rinascita di quel Paese. E’ un Paese che speriamo si avvii verso
una democrazia piena, compiuta e rispondente alle necessità di quel Paese. Ci sono
dei segnali, c’è una dialettica politica innanzitutto e c’è anche un ripensamento
di quello che è il ruolo dell’Iraq nella politica dell’area e in prospettiva globale.
L’Iraq di Saddam Hussein era il "bastian contrario" delle relazioni internazionali:
era un Paese frustrato e persistentemente all’opposizione rispetto a tutte le grande
questioni. Ora, è un Iraq forse più debole, forse più lacerato, ma è un attore: qualcuno
che serve per governare un’area e dei problemi che sono - come sappiamo tutti - di
portata enorme.