Calabria. A Rosarno il calcio è contro la discriminazione, nasce la prima squadra
di migranti
Giocare a calcio per eliminare le barriere sociali è quanto sta avvenendo nella città
calabrese di Rosarno, tristemente famosa per le rivolte dei migranti del 2010 che
accesero il dibattito sulle condizioni di questi esseri umani ghettizzati nelle tendopoli
e costretti a lavorare in nero. L’iniziativa è partita da don Roberto Meduri,
che ha voluto risolvere questa situazione creando il Koa Bosco, una squadra di calcio
autorizzata dal Coni, completamente gestita dai migranti, Davide Pagnanelli
lo ha intervistato chiedendogli come sia nata l’idea di una squadra di calcio:
R. - Perché
volevamo dare un’opportunità nuova a questi ragazzi africani, una risposta diversa
rispetto a quelli che erano gli aiuti che avevamo saputo dargli. Abbiamo pensato di
creare intorno a loro un’opportunità che li vedesse, li riscattasse in un certo senso
da quello che era accaduto nel 2010, in quel momento si era creata una spaccatura
nella società, nei giovani, nei ragazzi che già prima non li vedevano di buon occhio.
Poi hanno iniziato a sentire una certa ferita, ma non voglio parlare di razzismo,
per quello che era successo.
D. - Che impatto ha avuto questa iniziativa sugli
abitanti di Rosarno?
R. - Inizialmente li hanno boicottati, hanno fatto anche
dei danni, quello che hanno potuto, per far sentire il loro rifiuto. C’era questa
volontà di lasciarli in quello stato; hanno creato un ghetto con la tendopoli. Gli
abitanti dicevano: ”Stanno lì, noi gli diamo del lavoro in nero, ma riconoscergli
i diritti, no”. E non parliamo di diritti particolari, ma anche solo quello di poter
passeggiare oppure fare una squadra di calcio.
D. - In cosa consiste il progetto
“Uniti contro le frontiere”?
R. - All’interno del campo profughi, tra francofoni,
anglofoni, ci sono delle spaccature di clan, e delle frontiere che loro si portano
dalla stessa Africa. E allora lì, creare una squadra che li faccia giocare insieme,
ha un obbiettivo diverso: la prima barriera è la loro, poi c’erano quelle dei giovani
che non riuscivamo a coinvolgere in nessuna attività, per non parlare delle barriere
sociali, culturali della Calabria rispetto a questi ragazzi.
D. - Il calcio
in Italia vuol dire anche cori razzisti e discriminazione. Qual è la vostra esperienza?
R.
- Quando facevamo gli allenamenti abbiamo subito dei cori razzisti e delle ingiurie.
Pensavano forse che loro potevano essere una minaccia. Questo, almeno a Rosarno è
durato poco. È stato bello vederli insieme, proprio spalla a spalla, i giovani di
Rosarno ripulire il campo e la zona intorno e fare di quel campo, che era ormai diventato
una discarica a cielo aperto, un luogo dove potevano giocare un calcio pulito, almeno
per quanto riguarda le scorie che erano rimaste lì e pulito anche nel senso che non
era più aggressivo. Poi dopo alcuni piccoli attentati abbiamo dovuto spostarci con
gli allenamenti a Polistena e poi siamo finiti a Palmi. A Palmi è stato bellissimo
perché ci hanno accolto bene, e loro stanno bene. Anche se vivono nella tendopoli,
disputeremo le partite di campionato a Rosarno perché c’è tanta gente che li aspetta
e che fa il tifo per loro.