Papa Francesco in visita ai rifugiati e ai volontari del Centro Astalli di Roma: "Ognuno
di voi porta una ricchezza da accogliere"
Cari fratelli e sorelle, buon pomeriggio
Saluto prima di tutto voi rifugiati
e rifugiate. Abbiamo ascoltato Adam e Carol: grazie per le vostre testimonianze forti,
sofferte. Ognuno di voi, cari amici, porta una storia di vita che ci parla di drammi
di guerre, di conflitti, spesso legati alle politiche internazionali. Ma ognuno di
voi porta soprattutto una ricchezza umana e religiosa, una ricchezza da accogliere,
non da temere. Molti di voi siete musulmani, di altre religioni; venite da vari Paesi,
da situazioni diverse. Non dobbiamo avere paura delle differenze! La fraternità ci
fa scoprire che sono una ricchezza, un dono per tutti! Viviamo la fraternità!
Roma!
Dopo Lampedusa e gli altri luoghi di arrivo, per molte persone la nostra città è la
seconda tappa. Spesso – come abbiamo sentito - è un viaggio difficile, estenuante,
anche violento quello che si è affrontato – penso soprattutto alle donne, alle mamme,
che sopportano questo pur di assicurare un futuro ai loro figli e una speranza di
vita diversa per se stesse e per la famiglia. Roma dovrebbe essere la città che permette
di ritrovare una dimensione umana, di ricominciare a sorridere. Quante volte, invece,
qui, come in altre parti, tante persone che portano scritto “protezione internazionale”
sul loro permesso di soggiorno, sono costrette a vivere in situazioni disagiate, a
volte degradanti, senza la possibilità di iniziare una vita dignitosa, di pensare
a un nuovo futuro! Grazie allora a quanti, come questo Centro e altri servizi,
ecclesiali, pubblici e privati, si danno da fare per accogliere queste persone con
un progetto. Grazie a Padre Giovanni e ai Confratelli; a voi, operatori, volontari,
benefattori, che non donate solo qualcosa o del tempo, ma che cercate di entrare in
relazione con i richiedenti asilo e i rifugiati riconoscendoli come persone, impegnandovi
a trovare risposte concrete ai loro bisogni. Tenere sempre viva la speranza! Aiutare
a recuperare la fiducia! Mostrare che con l’accoglienza e la fraternità si può aprire
una finestra sul futuro, più che una finestra, una porta, e più si può avere ancora
un futuro! Ed è bello che a lavorare per i rifugiati, insieme con i Gesuiti, siano
uomini e donne cristiani e anche non credenti o di altre religioni, uniti nel nome
del bene comune, che per noi cristiani è espressione dell’amore del Padre in Cristo
Gesù. Sant’Ignazio di Loyola volle che ci fosse uno spazio per accogliere i più poveri
nei locali dove aveva la sua residenza a Roma, e il Padre Arrupe, nel 1981, fondò
il Servizio dei Gesuiti per i Rifugiati, e volle che la sede romana fosse in quei
locali, nel cuore della città. E penso a quel congedo spirituale del padre Arrupe
in Thailandia, proprio in un centro per i rifugiati. Servire, accompagnare, difendere:
le tre parole che sono il programma di lavoro per i Gesuiti e i loro collaboratori.
Servire.
Che cosa significa? Servire significa accogliere la persona che arriva, con attenzione;
significa chinarsi su chi ha bisogno e tendergli la mano, senza calcoli, senza timore,
con tenerezza e comprensione, come Gesù si è chinato a lavare i piedi agli Apostoli.
Servire significa lavorare a fianco dei più bisognosi, stabilire con loro prima di
tutto relazioni umane, di vicinanza, legami di solidarietà. Solidarietà, questa parola
che fa paura per il mondo più sviluppato. Cercano di non dirla. E’ quasi una parolaccia
per loro. Ma è la nostra parola! Servire significa riconoscere e accogliere le domande
di giustizia, di speranza, e cercare insieme delle strade, dei percorsi concreti di
liberazione. I poveri sono anche maestri privilegiati della nostra conoscenza
di Dio; la loro fragilità e semplicità smascherano i nostri egoismi, le nostre false
sicurezze, le nostre pretese di autosufficienza e ci guidano all’esperienza della
vicinanza e della tenerezza di Dio, a ricevere nella nostra vita il suo amore, la
sua misericordia di Padre che, con discrezione e paziente fiducia, si prende cura
di noi, di tutti noi. Da questo luogo di accoglienza, di incontro e di servizio
vorrei allora che partisse una domanda per tutti, per tutte le persone che abitano
qui in questa diocesi di Roma: mi chino su chi è in difficoltà oppure ho paura di
sporcarmi le mani? Sono chiuso in me stesso, nelle mie cose, o mi accorgo di chi ha
bisogno di aiuto? Servo solo me stesso o so servire gli altri come Cristo che è venuto
per servire fino a donare la sua vita? Guardo negli occhi di coloro che chiedono giustizia
o indirizzo lo sguardo verso l’altro lato? Per non guardare gli occhi?
Accompagnare.
In questi anni, il Centro Astalli ha fatto un cammino. All’inizio offriva servizi
di prima accoglienza: una mensa, un posto-letto, un aiuto legale. Poi ha imparato
ad accompagnare le persone nella ricerca del lavoro e nell’inserimento sociale. E
quindi ha proposto anche attività culturali, per contribuire a far crescere una cultura
dell’accoglienza, una cultura dell’incontro e della solidarietà, a partire dalla tutela
dei diritti umani. La sola accoglienza non basta. Non basta dare un panino se non
è accompagnato dalla possibilità di imparare a camminare con le proprie gambe. La
carità che lascia il povero così com’è non è sufficiente. La misericordia vera, quella
che Dio ci dona e ci insegna, chiede la giustizia, chiede che il povero trovi la strada
per non essere più tale. Chiede - e lo chiede a noi Chiesa, a noi città di Roma,
alle istituzioni – chiede che nessuno debba più avere bisogno di una mensa, di un
alloggio di fortuna, di un servizio di assistenza legale per vedere riconosciuto il
proprio diritto a vivere e a lavorare, a essere pienamente persona. Adam ha detto:
“Noi rifugiati abbiamo il dovere di fare del nostro meglio per essere integrati in
Italia”. E questo è un diritto: l’integrazione! E Carol ha detto: “I Siriani in Europa
sentono la grande responsabilità di non essere un peso, vogliamo sentirci parte attiva
di una nuova società”. Anche questo è un diritto! Ecco, questa responsabilità è la
base etica, è la forza per costruire insieme. Mi domando: noi accompagniamo questo
cammino?
Difendere. Servire, accompagnare vuol dire anche difendere, vuol dire
mettersi dalla parte di chi è più debole. Quante volte leviamo la voce per difendere
i nostri diritti, ma quante volte siamo indifferenti verso i diritti degli altri!
Quante volte non sappiamo o non vogliamo dare voce alla voce di chi – come voi – ha
sofferto e soffre, di chi ha visto calpestare i propri diritti, di chi ha vissuto
tanta violenza che ha soffocato anche il desiderio di avere giustizia! Per tutta
la Chiesa è importante che l’accoglienza del povero e la promozione della giustizia
non vengano affidate solo a degli “specialisti”, ma siano un’attenzione di tutta la
pastorale, della formazione dei futuri sacerdoti e religiosi, dell’impegno normale
di tutte le parrocchie, i movimenti e le aggregazioni ecclesiali. In particolare –
e questo è importante e lo dico dal cuore – in particolare vorrei invitare anche gli
Istituti religiosi a leggere seriamente e con responsabilità questo segno dei tempi.
Il Signore chiama a vivere con più coraggio e generosità l’accoglienza nelle comunità,
nelle case, nei conventi vuoti… Carissimi religiosi e religiose, i conventi vuoti
non servono alla Chiesa per trasformarli in alberghi e guadagnare i soldi. I conventi
vuoti non sono nostri, sono per la carne di Cristo che sono i rifugiati. Il Signore
chiama a vivere con generosità e coraggio la accoglienza nei conventi vuoti. Certo
non è qualcosa di semplice, ci vogliono criterio, responsabilità, ma ci vuole anche
coraggio. Facciamo tanto, forse siamo chiamati a fare di più, accogliendo e condividendo
con decisione ciò che la Provvidenza ci ha donato per servire. Superare la tentazione
della mondanità spirituale per essere vicini alle persone semplici e soprattutto agli
ultimi. Abbiamo bisogno di comunità solidali che vivano l’amore in modo concreto! Ogni
giorno, qui e in altri centri, tante persone, in prevalenza giovani, si mettono in
fila per un pasto caldo. Queste persone ci ricordano sofferenze e drammi dell’umanità.
Ma quella fila ci dice anche che fare qualcosa, adesso, tutti, è possibile. Basta
bussare alla porta, e provare a dire: “Io ci sono. Come posso dare una mano?”.
Voi
… vi ringrazio per l’accoglienza in questa Casa. Grazie. Grazie per la testimonianza,
grazie per l’aiuto, grazie per le vostre preghiere, grazie per il desiderio, la voglia
di andare avanti, di lottare e andare avanti. Grazie per difendere la vostra, la nostra
dignità umana. Grazie tante. Che Dio vi benedica, a tutti!