Cristiani in Siria: vittime di un conflitto radicalizzato tra comunità scita e sunnita
I cristiani in Medio Oriente, e in altri Paesi come l’Egitto dove sono una minoranza,
sono i primi a pagare il prezzo delle guerre, a soffrirne, a dover lasciare le proprie
case e tutti gli averi ed emigrare. Così ha denunciato qualche giorno fa mons. Fouad
Twal, patriarca di Gerusalemme dei Latini, in un incontro ad Amman dei capi delle
Chiese mediorientali. E la preoccupazione sale in questi giorni per la sorte dei cristiani
in Siria, come accaduto per gli abitanti del villaggio di Maalula. Roberta Gisotti
ha intervistato Marina Calculli, nostra collaboratrice in Medio Oriente:
D. - Come stanno
vivendo i cristiani il conflitto? Hanno mai preso posizione sulle ragioni del governo
e dei ribelli?
R. - I cristiani in Siria vengono considerati generalmente sostenitori
del regime. Questo perché c’è un’alleanza storica tra la comunità degli alawiti e
la comunità dei cristiani. Ovviamente, moltissimi hanno un atteggiamento neutrale,
moltissimi hanno dovuto ingoiare una pillola amara per ragioni di sicurezza. Purtroppo,
la connotazione confessionale - che ad un certo punto della sua evoluzione ha assunto
il conflitto siriano - ha portato anche i cristiani a doversi schierare in qualche
modo. Il conflitto è divenuto uno scontro tra sunniti e sciiti, ovvero gli alawiti,
che sono la comunità che appartiene alla famiglia sciita in Siria, cui appartiene
anche il regime di Bashar Al Assad, lui stesso è un alawita. I cristiani, semplicemente
perché considerati alleati o sostenitori del regime, diventano spesso oggetto di attacco
e di persecuzioni.
D. - Recente è l’assalto, da parte di formazioni ribelli
qadeiste, al villaggio cristiano di Maalula, al nord di Damasco, che tu hai visitato.
Un attacco che fa temere il peggio per i cristiani?
R. - Un attacco abbastanza
simbolico, perché Maalula è veramente il simbolo della cristianità più antica rappresentata
in questa regione. Tanto è vero che a Malula non solo ci sono degli antichissimi monasteri,
ma gli abitanti parlano ancora l’aramaico, quindi la lingua del Cristo. Proprio l’isolamento
geografico di Maalula ha permesso che si preservasse quanto meno la tradizione, anche
linguistica. Quindi, l’attacco a Maalula è un attacco simbolico. Da alcune testimonianze
che ho potuto raccogliere, il trattamento è stato molto pesante. Si è cercato addirittura
di convertire i residenti. La maggior parte sono riusciti a scappare, ma alcune centinaia
di persone rimangono all’interno del villaggio. Purtroppo, come dicevo prima, è il
riflesso di un conflitto che ha assunto - per servire interessi politici, ovviamente
- una piega del tutto confessionale. Le ragioni però non sono nelle religioni e nell’appartenenza
ad un credo. E questo è importante ricordarlo.
D. - Mons. Dominique Mamberti,
segretario per i Rapporti gli Stati, ha evidenziato che le Chiese cristiane sono impegnate
in prima linea sul piano umanitario. Quindi se dovessero emigrare tutti i cristiani
- sappiamo che ne sono già emigrati 450 mila dalla Siria - ci sarebbero costi umani
ulteriori per la popolazione civile…
R. - Probabilmente sì. Ci sono moltissime
comunità che danno assistenza umanitaria e non soltanto a militanti pro-Assad o agli
ufficiali dell’esercito, ma anche ai ribelli. Questa è una testimonianza che ho raccolto
in diverse occasioni e che è importante ricordare proprio per non dare l’immagine
dei cristiani come un blocco unico associato al regime di Assad. Dall’altra parte,
il timore dei cristiani - e questo non soltanto in Siria, ma è una preoccupazione
che si percepisce anche in Libano - è che la radicalizzazione politica della regione
porterà, prima o poi, a una impossibilità della convivenza tra le comunità cristiane
e le comunità musulmane. Questa sarebbe ovviamente una tragedia per una regione che
storicamente è il crogiolo di culture diverse e di religioni diverse, che ha dato
origine ai tre grandi monoteismi della storia e che rischia, appunto, di essere rovinata
da interessi politici.