Obama chiede al Congresso un voto rapido per l'intervento in Siria
Il presidente degli Stati Uniti ha chiesto al Congresso un voto in tempi rapidi per
dare il via libera al raid in Siria. Barack Obama è intervenuto alla Casa Bianca dopo
aver incontrato i leader del Parlamento che, da dopo il 9 settembre, alla ripresa
dei lavori, dovrà votare sull’intervento militare. Un sostanziale assenso arriva dal
presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, che ha detto: “E' necessario
rispondere all'attacco con armi chimiche in Siria: solo gli Stati Uniti hanno la capacita
di fermare Assad''. Il servizio di Debora Donnini:
Obama sollecita
un "sì" rapido all’intervento in Siria dicendosi fiducioso che il Congresso voterà
a favore. Ai leader parlamentari spiega che il raid ha lo scopo di ridurre la capacità
del regime di Assad di usare armi chimiche. ''Non è l'Iraq, non è l'Afghanistan, dice,
stiamo parlando di un raid limitato, proporzionato, che è un messaggio non solo ad
Assad, ma anche ad altri che potrebbero pensare di usare armi chimiche anche in futuro''.
E sembra ormai sempre più scontato che il Congresso gli concederà il via libera. Il
presidente della Camera, il repubblicano John Boehner, quello della maggioranza, il
collega di partito Eric Cantor, e quello del capo della minoranza, la democratica
Nancy Pelosi hanno in sintesi sottolineato che non si può non rispondere all'uso di
armi chimiche da parte del regime di Bashar Assad e che pertanto sosterranno la richiesta
del presidente. Oggi poi il presidente Usa ha avuto un colloquio telefonico con il
premier giapponese Abe sempre nell’ambito degli sforzi per comporre un fronte favorevole
all’azione contro Damasco. In serata, poi, il presidente francese Hollande precisa
che Parigi non interverrà da sola se il Congresso americano boccerà la risoluzione
in favore di un'azione militare. Intanto si chiarisce la situazione in merito al lancio
di due missili nel Mediterraneo rilevati dalla Russia. Israele ammette di aver effettuato
un test assieme agli Stati Uniti. I media israeliani hanno riferito che il test sarebbe
consistito nel lancio di missili Ankor Kahol, vettori realizzati a imitazione dei
missili Shahab iraniani. Poi il Pentagono spiega che il lancio di una versione aggiornata
di questo missile non è collegato al conflitto siriano. E mentre l’opposizione siriana
dice che il capo dei medici legali di Aleppo ha disertato dal governo di Assad, affermando
che ha le prove del coinvolgimento del regime nel presunto attacco chimico su Aleppo
di marzo, l’Onu ha fatto sapere che i profughi siriani sono ormai oltre due milioni.
In
primo piano sui media resta l’appello alla pace e al dialogo lanciato domenica da
Papa Francesco. Fabio Colagrande ne ha parlato con padreSamirKhalilSamir, docente di Storia della Cultura araba e islamologia all'Università
Saint Joseph di Beirut:
R. – La lotta
in Siria ormai non è la lotta della democrazia contro l’autocrazia: era così all’inizio,
contro la dittatura per ottenere democrazia e libertà. Oggigiorno, è diventata una
lotta del campo sunnita – rappresentato dai Paesi arabi della penisola arabica, con
l’aiuto di altri Paesi e l’aiuto, se possiamo considerarlo tale, di tutti quei movimenti
fondamentalisti terroristi – contro il regime. Regime all'incirca sciita, perché gli
alawiti sono solo una parte. Riemergono così circa 14 secoli di odio. Il problema
non è religioso, per niente.
D. – Quanto è importante questo appello di pace
del Papa e quali risultati potrà avere?
R. – In realtà, il Papa riassume ciò
che ogni persona ragionevole pensa: la guerra porta guerra, la violenza suscita violenza
e non finirà mai. Meglio il dialogo anche se faticoso, anche se ognuno deve fare dei
passi verso l’altro e deve rinunciare a una parte di ciò che vede come giusto. Meglio
questo che una guerra: già ci sono più di 100 mila morti, non si può ancora pianificare
più guerra nella speranza che porti pace. È impossibile, perché in Siria adesso le
due parti si trovano a un punto tale di odio reciproco che ognuno teme di poter cedere
e così di sparire, essere ucciso assieme alla comunità e i suoi seguaci. Non c’è altra
soluzione che la preghiera ed il digiuno, come dice il Vangelo e come ha detto il
Santo Padre, nella dimensione dell’umanità che ha un po’ di spiritualità. E dall’altra
parte c’è il dialogo: è stato pianificato per la settimana prossima un dibattito con
delle possibili concessioni mutue.
D. – E’ davvero perseguibile la via del
negoziato? Alcuni dicono che il negoziato ormai non ha più sbocchi…
R. – Il
negoziato è l’unica via. Che sia difficile è cosa certa. L’altra via sarebbe sterminare
tutti gli oppositori. L’unica via quindi è il negoziato, ovvero la presenza di un
“arbitro”: la comunità internazionale – rappresentata dall’Onu e da alcuni Paesi non
tutti dello stesso “campo” – che propone cose ragionevoli, soluzioni che non vanno
totalmente da una parte o dall’altra. Ogni parte sceglie i suoi rappresentanti più
“ragionevoli”, più aperti all’altro e una commissione internazionale fa da guida.
Io non conosco altra soluzione.
D. – Come sono coinvolti oggi i cristiani
della Siria in questa crisi e quale può essere il loro contributo alla pace?
R.
– Prima di tutto, cominciare a fare in Siria questo atto spirituale del digiuno e
della preghiera. Più ci saranno adesioni, più sarà un’atmosfera verso la pace. La
Siria ha una tradizione di rispetto perché lì c’era un regime sia baasista che laico.
Penso che i cristiani siano visti da tutti quanti come i più “pacificanti”.
Intanto,
i morti nel conflitto in Siria sono ormai oltre 100 mila e i rifugiati due milioni.
Di questi ben un milione e 800 mila sono fuggiti solo negli ultimi 12 mesi, facendo
registrare una drammatica impennata. Donne, bambini e uomini che attraversano i confini
in uscita dalla Siria spesso portando con sé poco più dei vestiti che indossano. Alcuni
arrivano fino in Sicilia, come conferma, nell’intervista di Fabio Colagrande,
Viviana Valastro, coordinatrice dei programmi di Save The Children:
R. – Sì, abbiamo
avuto l’intensificarsi degli arrivi, in particolare sulla provincia di Siracusa. A
volte Siracusa città – quindi con arrivo direttamente al porto attraverso la scorta
del natante da parte della Guardia Costiera e della Finanza – altre volte, invece,
arrivi proprio spontanei dell’imbarcazione sulla costa.
D. – Che tipo di accoglienza
Save the children cerca di assicurare in questi vari punti di sbarco?
R. –
In particolare, noi cerchiamo di garantire che i minori siano, sin dall’inizio, assistiti
in modo adeguato e ci preoccupiamo, per esempio, del fatto che sia garantito il nucleo
familiare. C’è il rischio infatti che – soprattutto quando i migranti sono tanti –
durante la fase dell’identificazione il nucleo familiare venga diviso. Una caratteristica
proprio di questi arrivi di siriani, che ha impressionato anche molto me personalmente
che ero in questi giorni a Siracusa, è l’arrivo di nuclei familiari composti a volte
dai nonni fino ai nipotini.
D. – Arrivano dalla Siria direttamente o da Paesi
vicini, confinanti?
R. – Ci sono sia persone che sono partite direttamente
dalla Siria, sia persone che sono riuscite ad arrivare in Egitto, al Cairo in particolare,
e poi dal Cairo si sono spostate sulla costa egiziana. Quella che è un’impressione,
sulla base appunto di quello che i migranti raccontano, è che possono esserci dei
passaggi su varie imbarcazioni: non necessariamente quella che è arrivata è la stessa
imbarcazione partita all’inizio, e quindi anche con gli stessi migranti partiti da
un unico posto, ma pare che ci siano più passaggi nel corso della navigazione.