Continua l'esodo dei siriani in Kurdistan. Il governo regionale: aiutateci ad aiutarli
Sono circa 200 mila, la metà dei quali bambini, i rifugiati siriani arrivati nel Kurdistan
iracheno, dove nei giorni scorsi sono stati consegnati aiuti umanitari sia dall’Acnur
che dall’Unicef. Ma queste persone hanno crescenti necessità, alle quali sta facendo
fronte il governo regionale del Kurdistan, una terra che sta rivivendo l’orrore che
la colpì nel 1988 quando un attacco chimico, ordinato da Saddam Hussein e condotto
dall’esercito iracheno, colpì la città curda di Halabja, uccidendo circa cinquemila
persone. Francesca Sabatinelli ha intervistato Rezan Kader, alto rappresentante
in Italia del Governo Regionale del Kurdistan in Iraq:
R. – La nostra
frontiera è aperta, le nostre braccia sono aperte per qualsiasi persona che abbia
bisogno di entrare nel nostro territorio come profugo. Attualmente, ospitiamo più
di 200 mila profughi siriani, senza distinzione tra cristiani e musulmani, tra arabi
e curdi: chiunque abbia bisogno. La frontiera nostra è aperta, solo che purtroppo
sono tanti. Il Kurdistan dell’Iraq è soltanto un fazzolettino di terra. E’ vero però
che abbiamo il cuore grande e la casa piccola, e stiamo cercando di accogliere tutti,
ugualmente. Abbiamo messo gli accampamenti, il presidente Barzani ha chiesto a tutti
gli uffici pubblici, a tutto il governo del Kurdistan di destinare una parte del bilancio
per aiutare i profughi che hanno bisogno di tanta assistenza. La maggioranza sono
bambini e anziani, i bambini hanno bisogno della scuola. Inoltre, stiamo andando verso
l’autunno e l’inverno e da quelle parti l’inverno è veramente rigido. Non si può rimanere
a lungo ancora sotto le tende, per questo tutti insieme dobbiamo cercare di aiutarli.
Noi, veramente, chiediamo a tutti coloro che sono contro la violenza, di aiutare questa
popolazione, questa gente.
D. – L’Acnur, Alto Commissariato Onu per i rifugiati,
così come l’Unicef hanno inviato aiuti, che però già si sono rivelati insufficienti,
le esigenze sono state. Che aiuto vi aspettate? Cosa chiedete alla comunità internazionale
tutta?
R. – E’ vero che le Nazioni Unite hanno fornito le tende e i servizi
di prima accoglienza, ma niente altro. Stiamo affrontando tutto noi, grazie al popolo
del Kurdistan iracheno, della nostra popolazione: tutti si recano a portare aiuti
umanitari a questa gente, cibo, vestiti, ogni cosa, ma in questo momento abbiamo bisogno
soprattutto che queste tende diventino qualcosa di più stabile per questa gente, visto
che – come ho detto – andiamo incontro al rigore dell’inverno. Poi, cerchiamo di avere
aiuto da tutta la comunità mondiale, specialmente aiuto sanitario. Ce n’è bisogno,
ci sono tanti sfollati, tanti di loro sono feriti e hanno bisogno di qualsiasi tipo
di aiuto da parte vostra. In particolare per i bambini, abbiamo bisogno dell’aiuto
umanitario e sanitario.
D. – Alla fine di agosto si è svolta ad Halabja una
manifestazione contro l’uso delle armi chimiche in Siria. Halabja è una ferita ancora
aperta. Qual è il sentire del popolo curdo nel guardare oltre confine ciò che sta
accadendo, al di là di quelli che possano essere i colpevoli?
R. – La stessa
ferita sta ancora sanguinando e di nuovo l’abbiamo vista sulla pelle degli altri popoli,
del popolo siriano, che siano curdi, cristiani, musulmani, chiunque essi siano. Purtroppo,
quello che ci fa veramente male è che noi pensavamo che con Halabja il capitolo delle
armi chimiche fosse chiuso, per tutto il mondo, e che avrebbe dovuto lasciare al mondo
intero la consapevolezza del genocidio del popolo curdo attraverso le armi chimiche.
Invece, vediamo che si ripete anche altrove. Noi non vogliamo ancora esprimerci finché
non si saranno espresse le Nazioni Unite tramite i loro esperti su questa faccenda,
ma quello che per noi è evidente e quello che osserviamo noi, la nostra popolazione,
il nostro popolo è che di nuovo, tutti abbiamo paura. L’appello del nostro presidente
Barzani per il popolo curdo del Kurdistan siriano è di pochi giorni fa: chiedeva al
popolo curdo della Siria di non lasciare il suo territorio e di salvaguardare se stesso
e il territorio del Kurdistan. La casa nostra è sempre aperta, ma preferiamo che il
nostro popolo non lasci la sua terra.