“I have a dream” compie 50 anni. Giovagnoli: Martin Luther King parla ancora agli
uomini del nostro tempo
Ricorreva ieri il 50.mo anniversario del discorso “I have a dream” di Martin Luther
King. L’evento, che diede una forte spinta alla promozione dei diritti dei neri d’America,
è stato ricordato ieri con una solenne celebrazione a Washington a cui ha preso parte
anche Barack Obama, primo Presidente afroamericano degli Stati Uniti. Sull’importanza
di questo discorso e il suo orizzonte sempre attuale, Alessandro Gisotti ha
intervistato lo storico Agostino Giovagnoli:
R. - Certamente
questo discorso ha avuto un enorme impatto nel contesto specifico del tempo, nel senso
di spingere per abolire, superare ogni discriminazione tra neri e bianchi. Ma è chiaro
che contiene anche un sogno universale, perché questo discorso fa riferimento ad esempio,
al "tavolo della fratellanza", al tema dell’uguaglianza, alla possibilità che uomini
diversi vivano insieme, i figli degli schiavi e quelli di coloro che hanno avuto schiavi.
Dunque è qualche cosa che non riguarda solo la discriminazione tra neri e bianchi
negli Stati Uniti nel 1963, ma tantissime situazioni della storia, del mondo ed anche
altre presenti - purtroppo - ancora oggi.
D. - 50 anni dopo gli Stati Uniti
hanno un presidente, Barack Obama, afro-americano. C’è però ancora molto da fare.
Ci sono ancora delle fratture profonde nella società americana...
R. - Si queste
fratture ci sono. Sono fratture profonde che seguono delle faglie piuttosto variegate.
La differenza tra bianchi e neri si confonde con la differenza tra le classi sociali
o di condizioni economiche. Quindi è chiaro che non basta abolire le leggi che discriminano
ufficialmente perché poi si producano effetti nella vita quotidiana. Ecco perché il
discorso di Martin Luther King è così ancora attuale; è un discorso che in realtà
ha una fortissima impronta religiosa, in quanto si rivolge non solo a chi governa,
agli uomini che fanno le leggi, ma anche ad ogni individuo. Non a caso, quel discorso
invitava i neri stessi ad evitare la violenza, il sangue.
D. – “I have a dream”
sembra quasi più una preghiera che un discorso, se uno va proprio a leggere in profondità
le parole. La dimensione religiosa è fondamentale per comprendere non solo la battaglia
personale di Martin Luther King, ma di tutto il movimento per i diritti civili dei
neri negli Stati Uniti …
R. - Certamente. Questo discorso non solo somiglia
ad una preghiera - forse lo è anche per molti aspetti -, ma riprende un discorso schiettamente
biblico dove all’interno dello stesso c’è un riferimento esplicito a Dio, ma - direi
- proprio la sua spinta profonda è, in sostanza, una spinta religiosa, escatologica,
in cui il cambiamento non è affidato al "gradualismo degli uomini" – come dice Martin
Luther King – ma è invece affidato alla potenza, alla forza più profonda che anima
la storia. Si tratta, appunto, di quella forza escatologica per la quale il futuro
del Regno di Dio in realtà comincia già oggi.
D. - Quel sogno in realtà appartiene
ancora a tutti noi. È questa forse la sua grande forza, è un sogno di pace, di fratellanza
che si può allargare ad ogni contesto. "I have a dream" parla di valori universali
…
R. - È così. E c’è anche un senso profondo di una speranza fondata su una
promessa, tipico di un approccio biblico che Martin Luther King applica alla promessa
fatta dai Padri pellegrini, i Padri fondatori degli Stati Uniti, che in qualche modo,
come lui dice: “Avevano già previsto che prima o poi tutti i cittadini americani,
bianchi o neri, avrebbero vissuto di uguali diritti”. Quindi questo senso di una promessa
che fonda una speranza, quindi di un futuro che non è affidato semplicemente alle
illusioni, ma non è neanche ripiegato tristemente nel realismo del presente, è qualche
cosa di universale che anche oggi risponde ad un bisogno profondo di molti, credenti
e non credenti.