Giornata mondiale popoli indigeni. La testimonianza di un missionario in Bangladesh
Gli Stati devono prendere “misure concrete" per evitare la marginalizzazione e l’esclusione
dei popoli indigeni: lo scrive il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, nel messaggio
in occasione della giornata internazionale a loro dedicata. Tra i Paesi che ospitano
queste popolazioni c’è il Bangladesh. Nell’intervista di Davide Maggiore, il
missionario saveriano padreGiacomo Gobbi ne descrive il modo di vita.
Ascoltiamo:
R. - Il loro
modo di vita tradizionale nei loro villaggi nella zona collinosa è molto semplice:
dediti all’agricoltura e alla caccia, sono ben organizzati anche come struttura sociale
dove è molto sentita la protezione del più debole, come le vedove. Anche nella zona
del Nord, dove ci sono quelli provenienti dal Pacifico, sono abbastanza organizzati.
Una struttura che è veramente interessante, dove i capi si danno da fare affinché
tutti vengano rispettati nei loro diritti.
D. – Queste minoranze però non sono
riconosciute come popoli indigeni…
R. – E’ vero che questi gruppi non sono
da sempre in Bangladesh, però hanno occupato queste zone, o sono stati portati là,
da qualche secolo. Il governo però non riconosce questa identità, preferiscono chiamarli
“minoranze etniche”.
D. – Quali sono le conseguenze pratiche?
R. – Devono
adattarsi alla cultura bengalese come lingua e come “tutto”. È vero che devono fare
questo sforzo di integrazione nella società più ampia della nazione del Bangladesh,
però non vengono riconosciuti tutti i diritti che potrebbero avere, come studiare
i libri nella loro lingua. Anche noi missionari siamo stati al loro fianco perché
i loro diritti vengano rispettati.
D. – Come missionari saveriani voi puntate
molto anche sull’educazione…
R. – Al Sud del Bangladesh c’è un gruppo forte
– i Munda - con diverse migliaia di persone che hanno perso la loro identità. I saveriani
che lavorano in mezzo a loro puntano sull’educazione, sull’istruzione soprattutto
delle ragazze, per superare la tradizione del matrimonio in giovanissima età. È stato
un po’ faticoso far accettare ai genitori la cosa, ma al momento attuale si sono convinti:
hanno visto che anche le loro ragazze possono inserirsi nella società, istruirsi e
farsi rispettare. Poi c’è anche un altro settore: a Dakka, la capitale, ci sono molti
di questi indigeni che vanno a cercare lavoro, ma sono sfruttati; c’è anche un missionario
che si interessa affinché i loro diritti siano rispettati.
D. – Per quanto
riguarda l’evangelizzazione: qual è il contesto in cui vi trovate ad operare?
R.
– Attualmente, con la nostra presenza cristiana, si sta preparando il terreno così
che l’uomo e la donna possano accogliere la chiamata di Cristo. Abbiamo avuto la stessa
esperienza anche tra i “fuori casta”; dopo che l’hanno chiesto, il catecumenato sta
andando avanti.
D. – C’è qualcosa che a voi missionari ha lasciato il rapporto
con queste culture?
R. – Il bello di questi popoli, di questi gruppi è vedere
come sono organizzati. Prima parlavo della protezione dei più deboli: in questo c’è
già il “seme del Verbo” che è caduto in mezzo a loro. Ora si tratta di farlo sviluppare.
L’onestà che hanno ed anche la curiosità e la semplicità, sono valori che ci hanno
aiutato ad essere missionari ed anche a poter leggere il Vangelo in mezzo a loro.