2013-08-09 16:04:36

Giornata mondiale popoli indigeni. La testimonianza di un missionario in Bangladesh


Gli Stati devono prendere “misure concrete" per evitare la marginalizzazione e l’esclusione dei popoli indigeni: lo scrive il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, nel messaggio in occasione della giornata internazionale a loro dedicata. Tra i Paesi che ospitano queste popolazioni c’è il Bangladesh. Nell’intervista di Davide Maggiore, il missionario saveriano padre Giacomo Gobbi ne descrive il modo di vita. Ascoltiamo:RealAudioMP3

R. - Il loro modo di vita tradizionale nei loro villaggi nella zona collinosa è molto semplice: dediti all’agricoltura e alla caccia, sono ben organizzati anche come struttura sociale dove è molto sentita la protezione del più debole, come le vedove. Anche nella zona del Nord, dove ci sono quelli provenienti dal Pacifico, sono abbastanza organizzati. Una struttura che è veramente interessante, dove i capi si danno da fare affinché tutti vengano rispettati nei loro diritti.

D. – Queste minoranze però non sono riconosciute come popoli indigeni…

R. – E’ vero che questi gruppi non sono da sempre in Bangladesh, però hanno occupato queste zone, o sono stati portati là, da qualche secolo. Il governo però non riconosce questa identità, preferiscono chiamarli “minoranze etniche”.

D. – Quali sono le conseguenze pratiche?

R. – Devono adattarsi alla cultura bengalese come lingua e come “tutto”. È vero che devono fare questo sforzo di integrazione nella società più ampia della nazione del Bangladesh, però non vengono riconosciuti tutti i diritti che potrebbero avere, come studiare i libri nella loro lingua. Anche noi missionari siamo stati al loro fianco perché i loro diritti vengano rispettati.

D. – Come missionari saveriani voi puntate molto anche sull’educazione…

R. – Al Sud del Bangladesh c’è un gruppo forte – i Munda - con diverse migliaia di persone che hanno perso la loro identità. I saveriani che lavorano in mezzo a loro puntano sull’educazione, sull’istruzione soprattutto delle ragazze, per superare la tradizione del matrimonio in giovanissima età. È stato un po’ faticoso far accettare ai genitori la cosa, ma al momento attuale si sono convinti: hanno visto che anche le loro ragazze possono inserirsi nella società, istruirsi e farsi rispettare. Poi c’è anche un altro settore: a Dakka, la capitale, ci sono molti di questi indigeni che vanno a cercare lavoro, ma sono sfruttati; c’è anche un missionario che si interessa affinché i loro diritti siano rispettati.

D. – Per quanto riguarda l’evangelizzazione: qual è il contesto in cui vi trovate ad operare?

R. – Attualmente, con la nostra presenza cristiana, si sta preparando il terreno così che l’uomo e la donna possano accogliere la chiamata di Cristo. Abbiamo avuto la stessa esperienza anche tra i “fuori casta”; dopo che l’hanno chiesto, il catecumenato sta andando avanti.

D. – C’è qualcosa che a voi missionari ha lasciato il rapporto con queste culture?

R. – Il bello di questi popoli, di questi gruppi è vedere come sono organizzati. Prima parlavo della protezione dei più deboli: in questo c’è già il “seme del Verbo” che è caduto in mezzo a loro. Ora si tratta di farlo sviluppare. L’onestà che hanno ed anche la curiosità e la semplicità, sono valori che ci hanno aiutato ad essere missionari ed anche a poter leggere il Vangelo in mezzo a loro.







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